Discorso di Pio XII agli sportivi italiani, 1945
Discorso di sua Santità Pio XII agli sportivi italiani
Solennità di Pentecoste, 20 maggio 1945
Voi ci portate, diletti figli, in mezzo a tanti motivi di tristezza e di angoscia, che profondamente Ci affliggono, una grande gioia, una grande speranza, quella gioia quella speranza, da cui era inondato il cuore di Giovanni, l’Apostolo prediletto di Gesù, l’ardente vegliardo dall’animo inalterabilmente giovane, quando esclamava: «Scrivo a voi, o giovani, perché siete forti e la parola di Dio sta in voi e avete vinto il maligno» (1Gv 2,14). Di questo Nostro gaudio, di questo magnifico spettacolo di una balda, franca, generosa, audace gioventù, che nella «Pasqua dello Sportivo» ha rinnovato con l’adempimento dei doveri religiosi le sue energie spirituali ed ora, qui adunata, dimostra con caloroso (e in parte anche, vorremmo dire, rumoroso) entusiasmo la sua fedeltà a Cristo e alla Chiesa, andiamo debitori alla tanto benemerita Presidenza del Centro Sportivo Italiano, che in unione col Comitato Olimpico Nazionale Italiano e con le Federazioni Nazionali, si è fatta di così opportuna manifestazione promotrice solerte, e sulla cui attività invochiamo dal Cielo i più abbondanti favori ed aiuti.
Lontano dal vero è tanto chi rimprovera alla Chiesa di non curarsi dei corpi e della cultura fisica, quanto chi vorrebbe restringere la sua competenza e la sua azione alle cose «puramente religiose», «esclusivamente spirituali». Come se il corpo, creatura di Dio al pari dell’anima, alla quale è unito, non dovesse avere la sua parte nell’omaggio da rendere al Creatore! «Sia che mangiate – scriveva l’Apostolo delle genti ai Corinti – sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31). San Paolo parla qui dell’attività fisica; la cura del corpo, lo «sport», ben rientra dunque nelle parole: «sia che facciate altra cosa». Che anzi egli ne discorre spesso esplicitamente: parla delle corse, delle lotte non con espressioni di critica o di biasimo, ma da conoscitore che ne eleva e ne nobilita cristianamente il concetto.
Poiché infine cosa è lo «sport» se non una delle forme della educazione del corpo? Ora questa educazione è in stretto rapporto con la morale. Come dunque potrebbe la Chiesa disinteressarsene?
E in realtà ha sempre avuto verso il corpo umano una sollecitudine e un riguardo, quali il materialismo, nel suo culto idolatrico, non ha mai manifestato. Ed è ben naturale, poiché questo vede e non conosce del corpo che la carne materiale, il cui vigore e la cui bellezza nascono e fioriscono per poi presto appassire e morire, come l’erba del campo che finisce nella cenere e nel fango. Assai diversa è la concezione cristiana. Il corpo umano è, in se stesso, il capolavoro di Dio nell’ordine della creazione visibile. Il Signore lo aveva destinato a fiorire quaggiù, per schiudersi immortale nella gloria del cielo. Egli l’ha unito allo spirito nella unità della natura umana, per far gustare all’anima l’incanto delle opere di Dio, per aiutarla a rimirare in questo specchio il loro comune Creatore, a conoscerLo, ad adorarLo, ad amarLo! Non Iddio ha fatto mortale il corpo umano, bensì il peccato; ma se per causa del peccato il corpo, tratto dalla polvere, deve un giorno ritornare in polvere, da questa tuttavia il Signore lo trarrà nuovamente per richiamarlo alla vita. Anche ridotti in polvere, la Chiesa rispetta e onora i corpi, morti per poi risorgere. Ma a visione anche più alta ci conduce l’Apostolo Paolo: «Non sapete voi, egli dice, che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi, che vi è stato dato da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (1Cor 6,19-20).
Glorificate Dio nel vostro corpo, tempio dello Spirito Santo! Non riconoscete voi là, diletti figli, le medesime parole che tante volte risuonano nei Salmi? Lodate Dio e glorificateLo nel suo santo tempio! Ma allora bisogna dire anche del corpo umano: Domum tuam decet sanctitas, Domine (Sal 92,5). Al tempio tuo s’addice la santità, o Signore! Bisogna amare e coltivare la dignità, l’armonia, la casta bellezza di questo tempio: Domine, diligo habitaculum domus tuae et locum tabernaculi gloriae tuae (Sal 25,8).
Ora qual è, in primo luogo, l’ufficio e lo scopo dello «sport», sanamente e cristianamente inteso, se non appunto di coltivare la dignità e l’armonia del corpo umano, di sviluppare la salute, il vigore, l’agilità e la grazia?
Né si rimproveri a San Paolo la sua energica espressione: Castigo corpus meum ei servitutem redigo: «Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in servitù» (1 Cor 9,27), a lui che in quel medesimo passo si appoggia sull’esempio dei fervidi cultori dello «sport», moderatamente e coscienziosamente esercitato, fortifica il corpo, lo rende sano e fresco e valido, ma per compiere quest’opera educativa, esso lo sottopone a una disciplina rigorosa e spesso dura, che lo domina e lo tiene veramente in servitù; allenamento alla fatica, resistenza al dolore, abitudine di continenza e di temperanza severa, tutte condizioni indispensabili a chi vuol conseguire la vittoria.
Lo «sport» è un efficace antidoto contro la mollezza e la vita comoda, sveglia il senso dell’ordine ed educa all’esame, alla padronanza di sé, al disprezzo del pericolo senza millanteria né pusillanimità. Voi vedete così come esso oltrepassa già la sola robustezza fisica, per condurre alla forza e alla grandezza morale. È ciò che Cicerone nella sua incomparabile nitidezza di stile esprimeva scrivendo: Exercendum…corpus et ita afficiendum est, ut oboedire consilio rationique possit in exsequendis negotiis et in labore tollerando (De off., l, I, C.23). Dal paese natale dello «sport» ebbe origine il proverbiale «fair play», quella emulazione cavalleresca e cortese che eleva gli spiriti al di sopra delle meschinità delle frodi, dei raggiri di una vanità ombrosa e vendicativa, e li preserva dagli eccessi di un chiuso ed intransigente nazionalismo.
Lo «sport» è una scuola di lealtà, di coraggio, di sopportazione, di risolutezza, di fratellanza universale, tutte virtù naturali, ma che forniscono alle virtù soprannaturali un fondamento solido, e preparano a sostenere senza debolezza il peso delle più gravi responsabilità. Come potremmo Noi in questa occasione non ricordare l’esempio del Nostro grande Predecessore Pio XI, che fu anche un Maestro dello «sport» alpino? Rileggete il racconto, così impressionante nella sua calma semplicità, di quella notte passata tutta intera, dopo un’ardua ascensione di venti ore, sopra una stretta sporgenza di roccia del Monte Rosa, a 4600 metri di altezza sul livello del mare, con un freddo glaciale, in piedi, senza poter fare un passo in nessun senso, senza potersi lasciar vincere un solo istante dal sonno, ma nel centro di quel grandiosissimo fra i più grandiosi teatri alpini, dinanzi a quella imponentissima rivelazione della onnipotenza e della maestà di Dio (Cfr. A.Ratti, Scritti alpinistici, Milano 1923, pp. 42-43). Quale resistenza fisica, quale tenacia morale un tal contegno suppone! E quale preparazione quelle ardite imprese dovettero essere per lui a portare il suo coraggio intrepido nell’adempimento dei formidabili doveri che lo attendevano, nella soluzione dei problemi apparentemente inestricabili, davanti ai quali egli si sarebbe dovuto trovare un giorno come Capo della Chiesa!
Affaticare sanamente il corpo per riposare la mente e disporla a nuovi lavori, affinare i sensi per acquistare una maggiore intensità di penetrazione delle facoltà intellettuali, esercitare i muscoli e abituarsi allo sforzo per temprare il carattere e formarsi una volontà forte ed elastica come l’acciaio: tale era l’idea che il sacerdote alpinista si era fatta dello «sport».
Come questa idea è dunque lontana dal grossolano materialismo, per il quale il corpo è tutto l’uomo! Ma come è anche aliena da quella follia di orgoglio, che non si trattiene dal rovinare con uno strapazzo insano le forze e la salute dello sportivo, per conquistare la palma in una gara di pugilato o di velocità, e lo espone talvolta temerariamente anche alla morte! Lo «sport» degno di questo nome, rende l’uomo coraggioso di fronte al pericolo del presente, ma non autorizza a sfidare senza una ragione proporzionata un grave rischio: il che sarebbe moralmente illecito. Al qual proposito Pio XI scriveva: «Con le parole – vero pericolo – intendo … quella condizione di cose che, o per se stessa o per le disposizioni del soggetto che vi si impegna, non è presumibile si possa affrontare senza che male ne avvenga» (Ibid, p.59). Perciò egli osservava a riguardo della sua ascensione sul Monte Rosa: «L’idea di tentare, come suol dirsi, un tiro da disperati, neppure ci passava pel capo… L’alpinismo vero non è già cosa da scavezzacolli, ma al contrario tutto e solo questione di prudenza e di un poco di coraggio, di forza e di costanza, di sentimento della natura e delle sue più riposte bellezze» (Ibid, p.22).
Così inteso, lo «sport» non è un fine, ma un mezzo; come tale, deve essere e rimanere ordinato al fine, il quale consiste nella formazione ed educazione perfetta ed equilibrata di tutto l’uomo, cui lo «sport» è di aiuto per l’adempimento pronto e gioioso del dovere, sia nella vita del lavoro, che in quello della famiglia. Con un rovesciamento lamentevole dell’ordine naturale alcuni giovani dedicano appassionatamente tutto il loro interesse e tutta la loro attività alle riunioni e alle manifestazioni sportive, agli esercizi di allenamento e alle gare, mettono tutto il loro ideale nella conquista di un «campionato», ma non prestano che un’attenzione distratta e annoiata alle importune necessità dello studio o della professione. Il focolare domestico non è più per loro che un albergo ove si fermano di passaggio quasi come stranieri.
Ben diversi, grazie al cielo, siete voi, diletti figli, quando, dopo una bella gara, vi rimettete, agili e con nuovo fervore, al lavoro, quando ritornati a casa, rallegrate tutta la famiglia coi vostri racconti esuberanti ed entusiastici.
Al servizio della vita sana, robusta, ardente, al servizio di un’attività più feconda nel compimento dei doveri del proprio stato, lo «sport» può e deve essere al servizio di Dio. A questo fine infatti esso inclina gli animi a dirigere le forze fisiche e le virtù morali, che sviluppa; ma mentre il pagano si sottoponeva al severo regime sportivo per ottenere soltanto una corona caduca, il cristiano vi si sottomette per uno scopo più alto, per un premio immortale (Cf. 1Cor 9,25).
Avete voi notato il numero considerevole di soldati fra i martiri che venera la Chiesa? Agguerriti nel corpo e nel carattere con gli esercizi inerenti al mestiere delle armi, essi erano per lo meno eguali ai loro commilitoni nel servizio della patria, nella forza, nel coraggio; ma si mostravano a questi incomparabilmente superiori pronti com’erano alle lotte, ai sacrifici nel servizio leale di Cristo e della Chiesa. Animati dalla medesima fede e dal medesimo spirito, siate anche voi disposti a tutto posporre ai vostri doveri di cristiani.
A che servirebbero infatti il coraggio fisico e l’energia del carattere, se il cristiano ne usasse soltanto per fini terreni, per guadagnare una «coppa» o per darsi delle arie da superuomo? Se non sapesse, quando occorre, ridurre di una mezz’ora il tempo del sonno o ritardare un appuntamento di stadio, piuttosto che tralasciare di assistere alla S. Messa la domenica; se non riuscisse a vincere il rispetto umano per praticare la religione e difenderla; se non si valesse della sua prestanza e della sua autorevolezza per arrestare o reprimere con lo sguardo, con la voce, col gesto, una bestemmia, un turpiloquio, una disonestà, per proteggere i più giovani e i più deboli contro le provocazioni e le assiduità sospette; se non si accostumasse a concludere i suoi felici successi sportivi con una lode a Dio, Creatore e Signore della natura e di tutte le sue forze? Siate sempre consapevoli che il più alto onore e il più santo destino del corpo è di essere la dimora di un’anima, che rifulga di purezza sociale e sia santificata dalla grazia divina.
Con ciò, diletti figli, è delineato e tracciato lo scopo dello «sport». Andate risolutamente alla sua attuazione, con la coscienza che nel campo della cultura fisica la concezione cristiana non ha nulla da ricevere d’altrui, ma piuttosto da dare. Quel che nelle varie specie e manifestazioni sportive si è dimostrato come veramente buono, voi potete accettarlo e adottarlo non meno degli altri.
Ma per ciò che riguarda il posto che lo «sport» deve avere nella vita umana, per i singoli, per la famiglia, per tutto il popolo, l’idea cattolica è semplicemente salvatrice e illuminatrice.
L’esperienza degli ultimi decenni è in questo senso altamente istruttiva; essa ha mostrato come soltanto la valutazione cristiana dello «sport» è capace di opporsi efficacemente a falsi concetti e a tendenze perniciose e di eliderne il malefico influsso; in compenso essa arricchisce la cultura fisica di tutto ciò che concorre ad elevare il valore spirituale dell’uomo e, quel che più conta, la orienta verso una nobile esaltazione della dignità, del vigore e della efficienza di una vita pienamente e fortemente cristiana. In ciò consiste l’apostolato che lo sportivo esercita, quando rimane fedele ai principi della sua fede.
È assai notevole quanto spesso l’Apostolo Paolo usa l’immagine dello «sport» per significare la sua missione apostolica e la vita di lotta del cristiano sulla terra, massimo nella prima Lettera ai Corinti. «Non sapete – egli scrive – che quelli che corrono nello stadio, corrono bensì tutti, ma uno solo riporta il premio? Correte dunque, affine di riceverlo». E qui aggiunge le parole alle quali abbiamo già fatto allusione: «Tutti quelli che lottano nell’arena, si astengono da tutto; ed essi per conseguire una corona corruttibile, ma noi per una incorruttibile. Anche io dunque corro allo stadio, ma non come alla ventura; fo del pugilato, ma non dando colpi all’aria; tratto duramente il mio corpo e lo riduco in servitù affinché non avvenga che dopo aver provocato gli altri alla lotta, io stesso rimanga soccombente» (1Cor 9,24-27).
Queste poche parole gettano sullo «sport» raggi di mistica luce. Ma ciò che all’Apostolo importa, è quella realtà superiore, di cui lo «sport» è l’immagine del simbolo: il lavoro incessante per Cristo, il raffrenamento e l’assoggettamento del corpo all’anima immortale, la vita eterna premio di questa lotta. Anche per lo sportivo cristiano, anche per voi, diletti figli, lo «sport» non ha da essere l’ideale supremo, lo scopo ultimo, ma deve servire a tendere verso quell’ideale, a conseguire quel fine. Se un esercizio sportivo riesce per voi di ricreazione e di stimolo ad adempiere con freschezza ed ardore i vostri doveri di lavoro o di studio, può ben dirsi che esso si manifesta nel suo vero significato e nel suo reale valore, ed ottiene felicemente l’intento suo proprio. Che se, oltre a ciò, lo «sport» è per voi non solo immagine, ma in qualche modo anche esecuzione del vostro più alto dovere, se cioè voi vi adoperate mediante l’attività sportiva a rendere il corpo più docile e obbediente allo spirito e alle vostre obbligazioni morali, se inoltre col vostro esempio contribuite a dare all’attività sportiva una forma più rispondente alla dignità umana e ai precetti divini, allora la vostra cultura fisica acquista un valore soprannaturale, allora voi attuate nello stesso tempo e in un solo atto il simbolo e la cosa simboleggiata di cui parla San Paolo, allora vi preparate a poter esclamare un giorno come il grande lottatore apostolico: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Del resto mi è serbata la corona di giustizia, che il Signore giusto Giudice renderà a me in quel giorno; né solo a me, ma anche a coloro che desiderano la sua venuta» (2Tim 4,7-8).
Affinché l’Onnipotente, creatore dei vostri corpi e delle vostre anime, lo Spirito Santo, di cui il vostro corpo è tempio, Maria, la Vergine potente e Madre intemerata, vi custodiscano, vi proteggano, vi concedano di «godere sempre sanità di spirito e di corpo». Noi, mettendovi sotto la loro egida, impartiamo di tutto cuore a voi, ai vostri compagni, alle vostre famiglie, la Nostra paterna Apostolica Benedizione.