Figli orfani? No grazie!
Ad un allenatore è stata fatta questa domanda: «Cosa ne pensa dei genitori a bordo campo?». Risposta: «Vorrei allenare una squadra di figli orfani!!». Una frase che esprime il dramma e la fatica di tanti allenatori e dirigenti, ma che andrebbe bloccata sul nascere, cioè nel suo sorgere come pensiero e desiderio, perché un figlio va immaginato con i suoi genitori, va desiderato insieme ai suoi genitori!
È stata una non felice scoperta leggere che tale espressione è ripresa anche in ambito arbitrale, questa categoria di appassionati sportivi che sorprende e stupisce per la resistenza e la tenacia nel continuare in un ruolo che li vede, in qualsiasi caso e nelle migliori delle ipotesi, sempre oggetto di critica. Eppure nell’articolo on-line del Corriere della Sera del 27 aprile viene riportata “la dichiarazione di un giovane arbitro, drammatica e memorabile: «Certe volte vorrei arbitrare un torneo di orfani»”.
Non si intende puntare il dito né colpevolizzare chi giunge a pensare e fare certe affermazioni: sicuramente esprimono la fatica e l’inadeguatezza ad affrontare situazioni che vanno al di là delle proprie capacità e competenze, se affrontate nella solitudine del proprio ruolo. Ugualmente non si intende affatto assecondare e giustificare espressioni che sono concentrate solamente sul fatto sportivo, tanto da dimenticare che il padre e la madre valgono più di una tranquilla partita di calcio, e che un giovane atleta non vive di solo sport.
Ma il problema c’è e va affrontato.
Quanto è successo recentemente al tradizionale torneo di Jesolo, durante i giorni di Pasqua (anche se forse sarebbe meglio dire nello scorso week end del 22-24 aprile: pare che di pasquale ci fosse ben poco!), riporta al “disonore delle prime pagine” la realtà di genitori, ma non sono solo loro a comportarsi in questo modo, che a bordo campo mostrano un’aggressività e una violenza tale da suscitare non poca preoccupazione e disagio.
E il problema non lo si affronta augurandosi in avvenire di incontrare squadre di orfani, che equivale non alla soluzione del problema, ma semplicemente alla sua impossibilità a riproporsi. Così come non ci pare una soluzione lungimirante pensare solamente ad un possibile ampliamento dei contesti di applicazione del DASPO (Divieto ad Accedere alle manifestazioni Sportive), che si presenta come azione post factum e non semplice da gestire nelle diversificate realtà dei contesti sportivi.
Situazioni come quelle di Jesolo, purtroppo non isolate e rare, vanno affrontate nella loro complessità e con gradualità, perché non ci sono ricette dal risultato facile e immediato.
McLuhan, noto sociologo canadese, scrisse: «Guardate come gioca una società e forse vi troverete i codici della sua cultura». Potremmo dire qualcosa anche del tifo sportivo? Quale cultura emerge dal mondo sportivo italiano e mondiale? In genere di quale sport si parla, quale viene amplificato e idealizzato dai media?
Affrontare la complessità di alcune problematiche sociali, che sono di tipo culturale, esige da una parte di evitare i vicoli ciechi del genericismo (tutto sullo stesso piano) e della deresponsabilizzazione (colpa di tutti, colpa di nessuno), dall’altra di assumere l’atteggiamento della collaborazione (insieme, ognuno per la sua parte) e della speranza (è realistico pensare un futuro migliore).
Appare evidente che di fronte a tali problematiche sociali si tratta di assumere un approccio educativo, che cerca e guarda al possibile cambiamento di una realtà valutata come non adeguata e non rispondente a una società civilmente avanzata. Un tale approccio ha bisogno di tanti attori protagonisti, anzi proprio tutti: genitori, dirigenti e allenatori, giornalisti e conduttori, organizzatori privati e amministratori pubblici, insegnanti ed educatori, aggregazioni laiche e confessionali. Impossibile a realizzarsi? Sicuramente non facile, ma possibile.
Le alternative all’approccio educativo sono due: continuare a lamentarsi e ogni tanto fare un articolo “scandalizzato”, per poi continuare a fare come sempre si è fatto (e forse questo è lo sport nazionale più diffuso!!); oppure introdurre nuove norme punitive, a rettifica e complemento di quelle già formalmente in vigore, per tentare di reprimere ciò che attraverso altri canali si favorisce.
L’approccio educativo rifugge il tutto e subito dei risultati dal “fiato corto”, e fa propria la scelta del lavoro graduale, costante e fiducioso tipico dell’allenamento, che è costellato di molteplici e complementari risultati, possibili a una sola condizione: che ci siano figure adulte che riconoscano e assumano la propria funzione primaria rispetto alle giovani generazioni, facendo ognuno la propria parte. È proprio poca cosa se alle società sportive e alle amministrazioni pubbliche e private si chiede solo l’organizzazione tecnica degli eventi sportivi. Ed è fondamentale che a dirigenti e ad allenatori interessi la promozione di una cultura sportiva ispirata ai principi del fair play. E ai genitori cosa si chiede e si offre? Solo di essere spettatori e accompagnatori dei propri figli? In che modo sono stati coinvolti per continuare ad essere i principali educatori dei figli?
Per quanto significativa e influente possa essere l’educazione tra pari, il passo del cammino educativo deve arrivare dal mondo degli adulti. Un mondo, quindi, non di figli orfani, ma di figli con tanti padri e madri che si alleano e agiscono insieme per il loro bene.
Don Claudio Belfiore