CEI – Sport e vita cristiana

PRESENTAZIONE

Dire il Vangelo al mondo dello sport e raccogliere la sfida educativa che da esso proviene sono i due motivi di fondo che spiegano e giustificano l’interesse con cui la Chiesa si rivolge a questo “nuovo areopago” dell’evangelizzazione. In questo orizzonte di impegno pastorale, la Commissione Ecclesiale della CEI per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport, ha ritenuto opportuno rivolgersi anzitutto a quanti hanno specifiche responsabilità pastorali in questo settore e al tempo stesso a tutte le comunità ecclesiali con una Nota pastorale, che vuole essere anche strumento di dialogo con quanti, credenti e non credenti, operano nel mondo dello sport.

Con sempre maggiore chiarezza, andiamo avvertendo come non ci si possa limitare a considerare lo sport come un semplice esercizio fisico-motorio, un apprendimento rigoroso e meticoloso di tecniche e di regolamenti, la messa in scena di uno spettacolo atletico e professionale. C’è attorno ad esso uno straordinario confluire di interessi e di coinvolgimenti, che lo rendono un evento di proporzioni inusitate per milioni di cittadini, di ogni ceto sociale.

Il numero delle strutture – sono circa 12 mila gli impianti sportivi di “pertinenza ecclesiale” – e quello dei ragazzi e giovani – 2 o 3 milioni – che vi si esercitano in vario modo, con gare spontaneistiche o di campionato, nelle diverse discipline sportive, evidenzia immediatamente un dato di fatto: il divario tra l’ampiezza del fenomeno sportivo nei nostri ambienti e la scarsa e a volte irrilevante attenzione che ad esso viene dedicata nella progettazione pastorale. Nelle nostre comunità ecclesiali, infatti, l’attenzione verso il mondo dello sport per lo più si configura come istanza pratica, lasciando soprattutto alla iniziativa delle parrocchie e delle associazioni collaterali il compito di organizzare il tempo di gioco dei ragazzi e dei giovani. Di fatto bisogna riconoscere che la riflessione pastorale sulla realtà sportiva non è mai emersa in forma oggettiva e impegnativa nelle Chiese in Italia.

La Nota che presentiamo vuol essere un contributo alla ripresa e all’orientamento dell’iniziativa pastorale in questo campo. E’ un dono alle nostre Chiese e nel contempo un sostegno alle nostre associazioni sportive, che manifestano un’autentica disponibilità a garantire, con slancio creativo e di alto segno etico, la funzione umanizzante dello sport mediante la forza del Vangelo e la tensione che da esso promana verso la perfezione dell’uomo. Vuole essere anche un attestato di cordiale vicinanza a tutto il mondo dello sport del nostro Paese, nella certezza di poter condividere con esso valori e progetti, attenzioni e preoccupazioni per uno sport sempre più al servizio dell’uomo e della sua crescita integrale.

Osservando il mondo dello sport più da vicino, soprattutto nel suo impatto con la realtà ecclesiale, la Nota vuole dare voce alle richieste culturali ed educative degli operatori e animatori dello sport, e quindi poi offrire percorsi possibili alle comunità cristiane per una presenza più significativa e più mirata nelle attività sportive di base.

La Nota è anche a suo modo una sintesi di una storia ecclesiale ricca di impegno educativo e di volontariato, e si ripromette di dischiudere inediti orizzonti alla nuova evangelizzazione e di promuovere una più elevata qualità umana per la persona e per la società.

Confidiamo che la novità e insieme i contenuti e gli orientamenti pastorali qui offerti possano incrementare l’impegno assiduo delle nostre Chiese in un ambito di vita genuinamente aperto al messaggio cristiano e ad un rinnovato umanesimo.

+ Salvatore Boccaccio, Vescovo di Sabina-Poggio Mirteto
Presidente della Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport

Roma, 1 maggio 1995

INTRODUZIONE

1. L’attenzione pastorale della Chiesa al fenomeno sportivo appare relativamente recente e non del tutto consolidata. Infatti, l’ormai riconosciuta incidenza del fenomeno sportivo nel tempo moderno, con una sua diffusa presenza anche nella vita delle comunità ecclesiali, non sembra aver generato pari attenzione nella riflessione pastorale.

Lasciato per lo più alla considerazione degli addetti di settore, lo sport rischia di essere colto come fenomeno non rilevante per la vita e la missione della Chiesa, dal momento che, secondo alcuni, non costituirebbe una dimensione essenziale né della vita umana, né della vita ecclesiale.

Ma una simile visione risponde a una concezione riduttiva dell’azione pastorale della Chiesa e della riflessione teologica che ad essa si riferisce. L’azione ecclesiale, in realtà, come sottolinea con forza Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, è rivolta all’uomo «in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”»[1]. Inoltre, l’azione ecclesiale non può essere definita esclusivamente e descritta in modo esaustivo da ciò che appartiene soltanto all’essenza della fede. Pastorale centrata sull’essenziale non significa, peraltro, pastorale ridotta ai minimi termini; significa, piuttosto, capacità di far vivere la parola del Vangelo e di inserire la vita nuova dello Spirito in ogni manifestazione dell’umano, secondo la legge dell’incarnazione: anche nel campo dello sport.

Parte prima

UN SECOLO DI ATTENZIONE E DI ESPERIENZA PASTORALE

Lo sport, un fenomeno tipico del nostro tempo

2. Lo sport: una passione straordinaria e affascinante per la carica di umanità che contiene e per la sua essenziale gratuità. Ma, anche, una realtà continuamente attraversata da dinamiche che la insidiano. La luce della fede però indica possibilità reali di superamento delle soglie di rischio e apre cammini di sviluppo crescente delle potenzialità positive.

Sviluppo di quella variabile permanente della storia degli uomini che è il gioco, lo sport appare oggi come fenomeno a presenza diffusa nella società. Nel nostro secolo, con una sensibile accelerazione negli ultimi decenni, esso registra una crescita estensiva e, soprattutto, intensiva: non solo per la massiccia partecipazione quantitativa, ma ancor più per la risonanza sociale e culturale. Insieme con il caleidoscopio dell’universo musicale, lo sport costituisce un “mondo-di-vita” specifico e caratterizzante delle giovani generazioni[2]. Occupa tempi e spazi di assoluto primato nei mezzi di comunicazione sociale: si pensi non solo alla presenza dilatata nei palinsesti radiotelevisivi, ma anche alla diffusione larghissima dei quotidiani sportivi, numericamente vincente rispetto a quelli di opinione. Stabilisce processi di identificazione, fino alla degenerazione di certe tifoserie intemperanti, in un mondo dalle appartenenze indebolite. Attrae e coagula interessi economici vastissimi, soprattutto nelle forme esasperate di professionismo, fino alla competizione-duello, alla mistificazione da doping.

3. La “tipicità” del fatto sportivo del nostro tempo non riposa soltanto sul dato numerico[3]; piuttosto – e propriamente – sulla capacità di lasciar trasparire, e a volte di far esplodere, linee di tendenza e campi di tensione presenti nella storia contemporanea, anche se spesso allo stato latente. Tipico, dunque, in quanto capace di catalizzare gli interessi e di significare le aspirazioni della società occidentale industrializzata. Sembra anzi che, attenuata l’efficacia terapeutica, catartica, resti alla pratica sportiva una lucida capacità diagnostica: essere specchio del nostro tempo. Nello sport si profilano molti tratti caratteristici della modernità: l’esaltazione della corporeità, il valore dell’immagine, il carico della disciplina come rigida ascesi laica, un nuovo rapporto tra lavoro e tempo libero, la convinzione di una illimitata possibilità di progresso, il predominio del soggetto, la logica di mercato, il gioco di squadra come piattaforma per l’esaltazione delle doti individuali (il campione) e specchio del modello aziendalistico.

Se lo sport registra disagi, se sale in prima pagina non solo per le conquiste dei primati ma anche per l’esplodere della violenza, è perché in esso si rispecchiano le tensioni irrisolte e le contraddizioni della società contemporanea. E’ vero anche, reciprocamente, che i metodi e le tecniche sportive attivano nell’individuo processi di sviluppo e modelli di comportamento che influiscono in maniera rilevante sul tessuto sociale. Suggestivo, al riguardo, il rilievo di Mc Luhan: «Vedete come gioca una generazione oggi e forse vi troverete il codice della sua cultura».

Alle dinamiche proprie della modernità e della società industriale si vanno aggiungendo, negli ultimi decenni, gli esiti della parabola declinante della modernità. Il disagio psico-sociale che essa registra, il senso crescente di disillusione, di smarrimento e di angoscia, e il suo rimbalzo distruttivo e violento, trovano nel mondo dello sport, e specialmente nelle discipline più popolari e simbolicamente marcate, un luogo elettivo di manifestazione e di sfogo. Così anche nel mondo dello sport si insinua il demone della autodistruzione, sotto la cui influenza negativa il nichilismo annienta ogni valore e genera negazione e morte.

D’altro canto, se viene interpretato secondo l’intera verità sull’uomo, quale la fede cristiana dischiude alla sua intelligenza, chiamandolo al rispetto e all’amore dell’altro, alla collaborazione, alla solidarietà, lo sport contribuisce efficacemente a contrastare e combattere le tendenze involutive ed egoistiche che emergono nella società contemporanea.

Una realtà multiforme e complessa

4. Lo sport costituisce un evento simbolico variegato. Lo è nella sua realtà articolata: non esiste lo sport, ma esistono gli sport, e più precisamente secondo i diversi profili, contesti, esperienze personali e sociali. Lo è per la diffusa difficoltà a determinare i valori umani e i riferimenti etici che vi sono implicati. Lo è per l’obiettiva complessità di elaborare una concezione, anzi una teoria dello sport quale fatto di cultura, che ne rilevi lo spessore di razionalità, senza consegnarlo alle esplosioni di un vitalismo incontrollato.

Non è nostro compito esaminare compiutamente le diverse tipologie della pratica sportiva. Ci basta rilevare l’insufficienza di una presentazione dello sport che abbia solo un carattere descrittivo e classificatorio[4]. Individuare invece con più puntuale e informata esattezza le diverse modalità e forme di sport nei loro risvolti non solo fisici e motori, ma anche psicologici, sociali, ambientali, etici, è una condizione importante e un’acquisizione preziosa per un discernimento atletico e pedagogico, capace di favorire lo sviluppo della persona, senza ledere la sua integrità psicofisica[5].

Prendere coscienza di questa ricca complessità sarà senz’altro di grande utilità alle società sportive che vogliano operare con intento di bene morale, alle famiglie, a chiunque desideri intraprendere una attività sportiva.

Il vissuto ecclesiale

5. Lo sport é di casa nelle nostre realtà ecclesiali, a cominciare dalla parrocchia e da quella istituzione così preziosa che é l’oratorio. La rilevanza pastorale e sociale di questo dato non può essere sbrigativamente sottostimata come attività di second’ordine, come una parentesi dagli impegni importanti della vita, quali lo studio o il lavoro, come un semplice riempitivo del tempo libero, o addirittura come una forma di concorrenza ad altre proposte formative o caritative.

Spesso, si è trattato di germinazioni spontanee, di coinvolgimento nella vitalità dei mondi giovanili, di adesione a domande e opportunità concrete. A volte, forse, è mancata una riflessione adeguata sotto il profilo della pedagogia della fede: ora non si è avvertita la problematicità e l’ambiguità della pratica sportiva; ora la valenza educativa è stata colta più come occasione di salvaguardia (“dai pericoli della strada, dalle cattive compagnie”…) e di contatto (“si gioca insieme, e poi si prega anche insieme”…) che non come aiuto alla crescita integrale della persona.

Ma quale impegno, quale dedizione, quale passione educativa in tanti giovani preti, in tanti operatori pastorali! Quanto bene ricreativo ed educativo concreto nelle associazioni sportive operanti nelle nostre realtà ecclesiali! Un fatto, questo, che non può essere superficialmente misconosciuto, né facilmente svalutato.

Non si vuole negare l’insorgere, a volte, di una qualche tentazione strumentale, come se lo sport fosse solo un mezzo di attrazione dei ragazzi e dei giovani a partecipare alla vita della Chiesa; ma se ne respinge decisamente ogni generalizzazione ed enfatizzazione. In realtà si deve riconoscere che con il gioco e lo sport la Chiesa si è inserita tra i ragazzi e i giovani in modo semplice ed efficace, nel rispetto della loro crescita e nella valorizzazione del loro gioioso incontrarsi.

L’attenzione magisteriale

6. Alla cordiale spontaneità della pratica pastorale e ad una certa debolezza della riflessione teologica fa riscontro l’attenzione notevole e significativa, distesa nel tempo e sempre più approfondita nella dottrina, del Magistero della Chiesa.

Il messaggio cristiano, infatti, tocca la vita dell’uomo in tutte le sue espressioni significative: in particolare, è attento ai fenomeni culturalmente rilevanti della persona e della società. L’azione ecclesiale perciò – ferma nei suoi riferimenti di principio, e tuttavia mai del tutto predeterminabile nelle sue applicazioni e forme concrete – si fa attenta a tutto ciò che acquista valore e incidenza nella cultura e nel vissuto di un’epoca. Lo rileva il Concilio Vaticano II nella “Dichiarazione sull’educazione cristiana”, non senza un esplicito riferimento al fenomeno sportivo: «La Chiesa valorizza e tende a penetrare del suo spirito e a elevare gli altri mezzi, che appartengono al patrimonio comune degli uomini e che sono particolarmente adatti al perfezionamento morale e alla formazione umana, quali gli strumenti della comunicazione sociale, le molteplici società a carattere culturale e sportivo, le associazioni giovanili e in primo luogo le scuole»[6].

E’ quindi da respingere, come storicamente infondata e dottrinalmente falsa, l’opinione secondo cui la Chiesa non si sarebbe mai curata di sport, né debba in alcun modo curarsene. Come diceva Pio XII: «Lontano dal vero è tanto chi rimprovera alla Chiesa di non curarsi dei corpi e della cultura fisica, quanto chi vorrebbe restringere la sua competenza e la sua azione alle cose “puramente religiose”, “esclusivamente spirituali”. Come se il corpo, creatura di Dio al pari dell’anima, alla quale è unito, non dovesse avere la sua parte nell’omaggio da rendere al Creatore! “Sia che mangiate – scriveva l’Apostolo delle genti ai Corinti – sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”»[7].

Se la Chiesa si interessa di sport, lo fa in forza della sua missione specifica: quella di annunciare all’uomo il Vangelo che libera e salva (cf. Marco 16,15). Il Vangelo, infatti, é purificazione e compimento di ogni autentica esperienza umana; é prospettiva di senso oltre l’immediato, fonte di interpretazione e realizzazione dell’esistenza; nuovo modo di giudicare e di scegliere, di operare nella vita e di rapportarsi a Dio e agli altri[8]. Il Vangelo è dono di vita nuova, forza critica, responsabilità di dire e fare – con tono libero e franco – la verità.

E’ ancora Pio XII a ribadire che «esistono delle virtù naturali e cristiane senza le quali lo sport non potrebbe svilupparsi, ma decadrebbe inevitabilmente in un materialismo chiuso, fine a se stesso; che i principi e le norme cristiane applicate allo sport gli schiudono più elevati orizzonti, illuminati perfino di raggi di mistica luce»[9].

A sua volta Paolo VI conferma: «La Chiesa, che ha la missione di accogliere ed elevare tutto ciò che nella natura umana vi è di bello, armonioso, equilibrato e forte, non può che approvare lo sport, tanto più se l’impegno delle forze fisiche si accompagna all’impiego delle energie morali, che possono fare di esso una magnifica forza spirituale…»[10].

Giovanni Paolo II afferma: «La Chiesa stima e rispetta lo sport che è realmente degno della persona umana. Esso è tale quando favorisce lo sviluppo ordinato e armonioso del corpo al servizio dello spirito, quando costituisce una competizione intelligente e formativa che stimoli l’interesse e l’entusiasmo, e quando resta sorgente di piacevole distensione»[11].

L’interesse pastorale

7. Sono molteplici e diverse le motivazioni che richiedono e spiegano l`attenzione pastorale della Chiesa al fenomeno sportivo. Ne ricordiamo alcune, in riferimento ai valori umani, sociali e culturali.

Anzitutto il gioco e lo sport sono attività profondamente umane, che rivelano quella dimensione ludica e quella cultura umanizzante che riscattano la persona da una impostazione consumistica e utilitaristica della vita. Inoltre hanno un valore pedagogico e costituiscono una via immediata di educazione integrale della persona. In questa prospettiva, appaiono rilevanti sia l’apporto positivo che la pratica sportiva è in grado di dare, sia i danni che una sua erronea impostazione può causare. In tal senso la comunità cristiana, soggetto globale della maturazione dell’uomo nella fede, viene direttamente interpellata nella sua responsabilità pastorale.

Oggi, inoltre, è notevolmente aumentato l’impatto sociale dei fenomeni sportivi, con ampi riflessi economici, di mentalità e di costume. A questo riguardo, acquistano immediato rilievo le strutture sportive, i mezzi di comunicazione che ne danno risonanza, gli interessi commerciali che vi si coagulano, gli stili e i modelli di vita e, quindi, i percorsi pedagogici che vi predominano. Urge allora entrare in questo complesso ambito sociale: certamente senza pregiudizi, ma con il discernimento evangelico, ossia con la sapienza che sa giudicare e denunciare e con la forza che sa proporre valori e prospettive cristiane.

Lo sport, infine, costituisce una delle matrici particolarmente significative della mentalità e del costume del nostro tempo. La risonanza assicurata dagli strumenti della comunicazione sociale fa sì che il mondo dello sport non sia affatto un settore marginale: né dal punto di vista numerico, né dal punto di vista qualitativo, cioè della proposta dei modelli di comportamento, dei valori o disvalori in gioco, delle figure di riferimento. E’ senza dubbio notevole l’incidenza culturale che il fenomeno sportivo esercita, ad esempio, sulla concezione del corpo e dell’agonismo, del divertimento e della festa, della vittoria o della sconfitta. Si può comprendere l’invito rivolto di Giovanni Paolo II agli atleti: «Voi atleti siete spesso negli occhi del pubblico. Perciò avete una responsabilità soprattutto nei confronti dei giovani e dei bambini che vi guardano come modelli»[12].

8. La complessa realtà dello sport può essere pastoralmente considerata, per analogia, uno degli “areopaghi moderni” che, sullo scorcio del secondo millennio, il Papa addita alla Chiesa e al suo insopprimibile slancio per la nuova evangelizzazione[13]. Siamo dunque nella prospettiva di una Chiesa missionaria, che vuole essere sempre più coraggiosamente impegnata a far risuonare la parola del Vangelo in tutti i luoghi significativi e quotidiani del vissuto degli uomini.

Questi approfondimenti della attenzione pastorale della Chiesa aiutano a superare le difficoltà sopra ricordate. In particolare, il pericolo che si tenda a una presenza acritica della Chiesa, una presenza cioè che si limiti a giustapporre momenti di “cura spirituale”, senza cogliere l’incidenza profonda del fenomeno sportivo nei singoli e nel costume della società. Non si tratta, infatti, di “battezzare” o di catturare lo sport, ma di condurre alla sua piena verità la pratica sportiva e di aiutare gli uomini che la vivono nel loro cammino di salvezza.

Appare in tal modo la connessione nativa e originale tra la realtà dello sport e il compito di educazione, di evangelizzazione e di costruzione della società, che è proprio dell’azione della Chiesa.

L’umanesimo cristiano non può che guardare con grande favore a quanto di positivo emerge nello sport: soprattutto una singolare attenzione alla persona, ai suoi valori di libertà, intelligenza, volontà, corporeità, e alla sua essenziale apertura agli altri e alla società. Lo stesso umanesimo cristiano é vigile e coraggioso nel denunciare e rifiutare quanto di ambiguo e di negativo può contagiare il mondo dello sport.

Parte seconda

PER UNA VISIONE CRISTIANA DELLO SPORT

9. Alcuni idealizzano lo sport, facendone quasi una sorta di religione laica universale, basata sugli ideali di pace, fratellanza, lealtà, incontro tra i popoli. Altri lo demonizzano, per le deviazioni divistiche, le violenze, gli asservimenti economici, le possibili, e storicamente realissime, strumentalizzazioni socio-politiche.

Un atteggiamento ingenuamente irenico dello sport non porterebbe che a coprire interessi di parte, indegni dell’uomo e della sua verità integrale. D’altra parte la presunzione di chi lo volesse giudicare solo dall’interno non aiuterebbe la comprensione del fenomeno sportivo.

Per una corretta interpretazione umana e cristiana dell’attività sportiva è necessario il discernimento evangelico, che si avvale insieme dell’apporto specifico della fede e del contributo delle conoscenze umane. E’ questo il criterio di valutazione riproposto dal Concilio Vaticano II: interpretare ogni cosa “alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana”[14][14].

La prospettiva teologico-pastorale

10. La visione conciliare del rapporto Chiesa-mondo spinge a chiedersi non solo cosa ha da dire la Chiesa allo sport, ma anche cosa ha da dire lo sport alla Chiesa. E’ proprio questo cordiale e franco dialogo che può avviare un nuovo approccio pastorale allo sport e individuarne alcuni criteri orientativi. Come diceva Paolo VI: «La Chiesa invita a discernere quei criteri che si preoccupano di assumere tutti i valori veri e con i quali ci si impegna a fondo per dialogare con il mondo d’oggi, tenendo conto delle diverse espressioni che di fatto investono la vita personale e sociale dell’uomo»[15].

Per una considerazione teologica dello sport

11. Come ogni altra realtà umana, lo sport non è il “tutto”, non è un assoluto: esso rientra nell’orizzonte della creazione, ed è quindi caratterizzato insieme da potenzialità positive e da limiti. L’attività sportiva non è autonoma dal progetto salvifico di Dio, né separabile dal primato dell’uomo, e quindi non è esente dal riferimento ai valori morali.

Se è sterile e fuorviante isolare lo sport dall’evento della creazione e della redenzione, è altrettanto riduttivo pensare che la prospettiva cristiana possa essere semplicemente giustapposta allo sport. La fede infatti non si aggiunge dall’esterno, ma coinvolge e viene coinvolta in profondità nella elaborazione di progetti e programmi capaci di consentire allo sport di svolgere pienamente la sua funzione umanizzante.

La prospettiva cristiana non si limita ad inserire qualche atto religioso quasi ad integrazione della pratica sportiva. E’ piuttosto la proposta di uno stile di vita, che evita lo spiritualismo evasivo ed insieme va oltre l’orizzonte puramente terreno.

Non si tratta anzitutto di richiamare alcuni principi etici da applicare allo sport come ad un settore a sé stante, ma di ritrovare e vivere la verità cristiana sull’uomo e sulla società, che illumina e valorizza anche l’esperienza del gioco, del divertimento e dello sport. Riferendosi all’apostolo Paolo, che scrive: «Ogni atleta è temperante in tutto», Giovanni Paolo II rileva il significato interiore e spirituale dello sport e fa un’importante precisazione: «Troviamo in queste parole gli elementi per delineare non solo un’antropologia, ma un’etica dello sport ed anche una teologia che ne metta in risalto tutto il valore»[16].

E’ da questa visione unitaria e integrale dell’uomo che possono poi scaturire criteri e norme di valutazione e di progettazione, nonchè validi modelli di esistenza cristiana anche nell’ambito della pratica sportiva. La fede offre un’ispirazione ed una forza tali da permettere all’attività sportiva di vivere e di esprimere in pienezza la propria verità umana[17].

L’esperienza conferma che il limitarsi a tracciare e ad applicare le “regole del gioco” senza riferirsi ai valori spirituali e all’etica, in nome di una pretesa “autonomia” dello sport, impoverisce grandemente la pratica sportiva, snervandone la forte potenzialità formativa e sociale.

Senza in alcun modo pregiudicare e invadere la specificità propria dello sport, il patrimonio della fede cristiana libera questa attività da ambiguità e deviazioni, favorendone una piena realizzazione.

Non basta, perciò, riconoscere in astratto la congenialità delle virtù umane proprie dello sport con le virtù cristiane; si tratta piuttosto di riconoscere e di riaffermare che la stessa adesione alle virtù umane riesce difficile e quasi impossibile al di fuori di un contesto di valori e di una visione della vita capace di motivare, orientare, sorreggere scelte non sempre spontanee e immediatamente praticabili. Si tratta inoltre di riconoscere che la tradizione cristiana, che ha fecondato il terreno della civiltà occidentale, ha diffuso nelle dichiarazioni di principio e di intenti una serie di comportamenti, che sono risultati determinanti sia nello sport che nel resto della convivenza sociale: si pensi al rispetto del regolamento, alla stima per il concorrente, all’accettazione della sconfitta, alla non esasperazione dell’agonismo.

La rivelazione di Dio creatore

12. Il Concilio Vaticano II ha inserito il tema dello sport nell’ambito della cultura[18], cioè là dove si evidenzia la capacità interpretativa della vita, della persona, delle relazioni.

In quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Genesi 1,27), l’uomo sta in relazione speciale col Creatore e possiede una dignità personale incommensurabile, per la quale – scrive Sant’Ambrogio – egli «esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell’universo e la suprema bellezza di ogni essere creato»[19].

L’uomo partecipa della signoria stessa di Dio: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate…”» (Genesi 1,28). Sta qui il fondamento della “creatività” umana, segno e frutto della libertà. E questa rimane nella verità quando viene vissuta attraverso il dono sincero di sé, nonostante i molteplici condizionamenti di cui è segnata la vita dell’uomo.

Così nel progetto originario di Dio la persona umana non è creata per il lavoro e la fatica, il conflitto e la morte, ma per la vita e la gioia, l’incontro e il bene. Il mondo, e l’uomo nel mondo, portano l’impronta della bontà divina: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi 1,31). Per questo l’azione dell’uomo nel mondo corrisponde al progetto divino quando è rispetto e promozione di tutto ciò che è buono e bello. Tanto la schiavitù dalle cose quanto il dominio sul fratello sono allora esclusi dal progetto della creazione.

Ma pur essendo costitutivamente orientato a ciò che è buono e bello, l’uomo, insidiato dal Maligno e dalle forze del male (cf. Genesi 3,1 ss), ha anche la tremenda possibilità di rifiutare il dono del Creatore, di non rispettare ma rovinare tutta l’opera di Dio. Così ogni realtà umana, in seguito al peccato, si presenta come ambivalente e contraddittoria; così il tempo libero può essere insieme una stupenda opportunità di creatività o un’occasione di alienazione, di sottomissione alla caducità (cf. Romani 8,20). Anche lo sport è soggetto a rischi ed ambiguità: dev’essere allora orientato, sostenuto e guidato perchè sia per l’uomo[20].

Lo sport, luogo di valori

13. La Chiesa si interessa di sport perché si interessa dell’uomo, perché è profondamente coinvolta nella sua vicenda e impegnata, per vocazione e missione, nella sua salvezza. Nella sua prima enciclica Giovanni Paolo II ha scritto che l’uomo è «la prima e fondamentale via della Chiesa»[21]. Ed è con questa convinzione che si apre la Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore»[22].

Per quanto non essenziale alla vita dell’uomo e della società, lo sport tocca senz’altro aspetti che sono fondamentali per la formazione della persona, nelle sue modalità di espressione e di relazione con gli altri e con il mondo creato.

Lo sport non può essere considerato come una realtà totalizzante: non è tutto, ma va correttamente rapportato a una scala di valori quali il primato di Dio, il rispetto della persona e della vita, l’osservanza delle esigenze familiari, la promozione della solidarietà. In questo senso, lo sport non è un fine. Ma esso non è nemmeno un semplice mezzo; piuttosto, è un valore dell’uomo e della cultura, un “luogo” di umanità e civiltà, che tuttavia può risolversi in luogo di degenerazione personale e sociale.

Dal punto di vista etico, lo sport ha come sua finalità oggettiva di essere “al servizio di tutto l’uomo”[23], di rispettare e favorire “la dignità, la libertà, lo sviluppo integrale dell’uomo”[24]. Tale principio di finalità non riduce la rilevanza, altrettanto fondamentale, della corretta intenzione del soggetto coinvolto nella pratica sportiva[25]; ne costituisce piuttosto la guida e la regola per la sua autentica bontà.

L’affermazione della presunta “neutralità” dello sport, come esperienza sganciata da riferimenti etici, generalmente non è disinteressata, ma al servizio di una concezione mercificante della vita.

Eppure, lungo i secoli la diffusione di una concezione fortemente ideale dello sport ha prevalso sugli interessi di parte, a conferma dell’orientamento dello spirito umano al vero, al buono e al bello, nonostante il decadimento del peccato. Infatti, la sapienza di Dio si fa presente nell’intimo della coscienza come luce e guida verso il bene e la felicità mediante quella “legge naturale” che è scritta nel cuore di ogni uomo (cf. Romani 2,15) e può essere conosciuta dalla retta ragione. Le diverse leggi particolari che ne derivano – e che trovano il loro più autorevole fondamento nel Decalogo – toccano ogni ambito della vita e dell’attività dell’uomo: anche il campo dello sport. Dai comandamenti di Dio, dice Pio XII, «traggono forza anche quelle leggi, già note agli atleti del paganesimo, che i genuini sportivi mantengono giustamente come leggi inviolabili nel giuoco e nelle gare, e sono altrettanti punti di onore»[26].

Quindi, se è certamente improprio parlare di sport “cristiano”, o “cristianizzato”, è senz’altro corretto riconoscere una specifica ispirazione cristiana dello sport, che genera un discernimento critico ed apre ad una nuova prospettiva, con notevoli effetti positivi sia per chi pratica attività sportive sia per l’intero contesto socio-culturale. L’inculturazione della fede, come inserimento e fermento della fede nelle culture, non può non coinvolgere l’ambito sportivo.

E’ da respingere, perciò, l’opinione secondo cui lo sport avrebbe solo un carattere strumentale, o riceverebbe senso e convalida solo dall’esterno; al contrario, esso è in se stesso luogo di valore. Questo è il pensiero, secondo Giovanni Paolo II, dello stesso san Paolo, che «ha riconosciuto la fondamentale validità dello sport, considerato non soltanto come termine di paragone per illustrare un ideale etico ed ascetico, ma anche nella sua intrinseca realtà di coefficiente per la formazione dell’uomo e di componente della sua cultura e della sua civiltà»[27].

I fattori costitutivi

14. Una lettura attenta del fenomeno sportivo come realtà profondamente umana permette di individuarne alcune componenti che, in misura diversa e secondo realizzazioni molteplici, si rivelano costanti e caratterizzanti. Non si tratta di tracciare la “figura ideale” dello sport, ma di mettere in luce come, proprio nelle sue componenti costitutive, la pratica sportiva racchiuda una vasta gamma di valori umani, personali e sociali. E’ un’ulteriore conferma dell’insostenibilità dello sport come realtà “neutrale”, come realtà che possa prescindere dai valori morali. Fermiamo la nostra attenzione, in particolare, sul gioco, la festa, il corpo, l’agonismo.

Il gioco

15. Lo sport è storicamente, strutturalmente e, per così dire, geneticamente connesso alla dinamica del gioco. Se ne differenzia, sia pure non adeguatamente, per una maggiore dipendenza dalla organizzazione sociale, presente anche nell’antichità, dove però i giochi organizzati mantenevano una più forte analogia con il gioco “spontaneo” di singoli e gruppi. Se ne differenzia, inoltre, per una determinazione più vincolante delle forme e per una più accentuata dimensione di spettacolarità. Differenziarli non significa tuttavia contrapporre tra loro gioco e sport, perchè l’anima dello sport è pur sempre il gioco.

La dimensione ludica appare perciò come fattore decisivo e quindi istanza critica per una corretta interpretazione e attuazione del fenomeno sportivo. Questo vale anche se è tutt’altro che facile, nel concreto, determinare in forma riconosciuta e accettata il significato e il “segno” della dimensione ludica nello sport. Anche perché quella del gioco è nozione di non univoca interpretazione.

Se definire il gioco è molto complesso, se ne possono tuttavia individuare alcuni aspetti caratterizzanti, particolarmente sensibili ai riferimenti di valore, quali sono la gratuità e la simbolicità.

16. Un aspetto rilevante, che distingue il gioco dallo sport professionistico e che pone a quest’ultimo interrogativi non eludibili, è senz’altro la gratuità.

Il gioco – almeno nella sua accezione ideale e nella sua struttura psicosociale originaria – non ha carattere produttivo, non “serve” a nulla, ma è bello e gradito per se stesso. Per questo esso appare, all’occhio della fede, come un anticipo della realtà escatologica, dove l’agire umano non é stretto dalla “necessità”, e come un’espressione della dimensione di festa. Il gioco e il divertimento liberano dalla costrizione del tempo e del bisogno. Oggi, nell’era della modernità opulenta, non sono soltanto le necessità materiali a soffocare la libertà dello spirito; anzi, l’insidia che mina in radice il “tempo libero” proviene dal cuore dell’uomo, da dove scaturisce il male che ostacola il vivere “la libertà con cui Cristo ci ha liberato” (Galati 5,1). Così, nell’atto stesso della pratica sportiva, a volte anche del gioco, torna a dominare quella costrizione che ci rende schiavi.

Nel gioco non ci si aspetta un riscontro o un tornaconto dall’esterno: si è paghi della soddisfazione di essersi espressi al meglio, di aver raggiunto un traguardo ambìto; anche di aver riportato vittoria. Ma questo non è sempre spontaneo e scontato. Se perde la propria originaria funzione e si lascia condizionare da altri interessi, anche il gioco assume carattere di dura competizione e tende inesorabilmente a strutturarsi in forme soggiogate dalla cultura della prestazione, che strumentalizza al risultato ed estenua la gratuità. Così accade diffusamente, di fatto, nella pratica sportiva agonistica.

17. Il gioco ha un grande valore simbolico, in quanto richiama che la persona umana non è riducibile a forza di produzione e di consumo, perchè sperimenta un innato bisogno di gioia e di festa, di creatività e di fantasia, di ricarica interiore e di pacificante incontro con gli altri. Tutto questo patrimonio di umanità è racchiuso nel concetto biblico di “riposo” (cf. Genesi 2,2; Salmo 23,2), che testimonia l’orientamento dell’esistenza ad andare oltre l’immediato e il contingente.

L’esperienza conferma che l’uomo, chiudendosi nel proprio egoismo, resta vittima della logica del predominio e, riducendosi a puro strumento di economia e/o di potere, mortifica la propria comunicatività. Il gioco e lo sport, se vissuti correttamente, hanno in sé la capacità simbolica di restituire l’uomo al senso profondo del vivere, di prefigurare e in qualche modo anticipare il mondo ideale, il mondo nuovo, liberato dalla schiavitù del male e della morte.

La libertà, che il gioco e lo sport, mantenuto nella sua nativa dimensione ludica, evidenziano e propongono, non equivale affatto all’arbitrio spontaneistico, che si traduce nel disimpegno sterile o nell’autoaffermazione prepotente. Anche il gioco si struttura necessariamente in regole che vanno rispettate con rigorosità e lealtà, ma che si differenziano radicalmente dalle leggi dell’efficientismo, vero nemico della libertà di essere e di manifestare positivamente se stessi.

Il gioco stimola a mettere seriamente in discussione i criteri che guidano la nostra società. L’era della scienza e della tecnica ha arricchito le nostre conoscenze e riempito i nostri magazzini di utili e a volte terribili strumenti, ma ha impoverito la nostra capacità di esperienza e di sapienza. Nonostante l’ampliarsi della disponibilità di tempo libero, l’homo faber ingloba sempre di più e quasi soffoca l’homo ludens. Un’umanità privata della fantasia e della gioia, della festosità e del gioco si immiserisce e tende inesorabilmente all’autodistruzione. Purtroppo questo sembra avvenire, come in una parabola inquietante, proprio nel mondo dello sport, spesso esacerbato dalla estremizzazione e dalla violenza, così che i terreni di gioco tendono a trasformarsi in campi di battaglia.

Più che non la denuncia e la condanna, è utile l’individuazione delle dinamiche perverse che i meccanismi di profitto e di violazione della dignità della persona mettono in atto. Solo incidendo su di essi e proponendo la pratica sportiva secondo gli ideali di un autentico umanesimo e, ancor più, di una convinta adesione ai valori del Vangelo, è possibile colpire alla radice questo virus insidiosissimo, che distrugge lo sport dall’interno.

Si rende inoltre necessario vagliare se e come la dimensione ludica – garanzia non unica, ma importante e rivelatrice, della qualità umana dello sport – permanga e possa permanere nello sport professionistico, invaso dagli interessi economici e asservito alla spettacolarità. Se esso, cioè, sia ancora capace di gioia e di festa. Se non sia indispensabile rivedere, con autentica profezia, il quadro di valori cui esso fa riferimento e si ispira.

La festa

18. «Lo sport – diceva Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo Internazionale degli Sportivi – è gioia di vivere, gioco, festa, e come tale va valorizzato e forse riscattato, oggi, dagli eccessi del tecnicismo e del professionismo mediante il recupero della sua gratuità, della sua capacità di stringere vincoli di amicizia, di favorire il dialogo e l’apertura gli uni verso gli altri, come espressione della ricchezza dell’essere ben più valida ed apprezzabile dell’avere, e quindi ben al di sopra delle dure leggi della produzione e del consumo, e di ogni altra considerazione puramente utilitaristica ed edonistica della vita»[28].

Fin dall’antichità, la pratica del gioco e dello sport è stata abbinata alla festa: lo sport produce atmosfera festosa e la festa trova nello sport un’espressione gioiosa di partecipazione e di coinvolgimento. Il divertimento, la celebrazione di un evento di interesse collettivo, il ritrovarsi insieme, il partecipare o il parteggiare in modo corretto e amichevole favoriscono le relazioni sociali ed aiutano a superare le barriere campanilistiche, locali, nazionali e razziali. Proprio il mantenere il gioco e lo sport in stretto collegamento con la vita quotidiana, evitando di isolarli o di idolatrarli, consente di stemperare le rivalità e le aggressività, come pure di incontrarsi al di là di antiche ruggini e differenze socio-culturali. Ma quando l’atmosfera di festa è rovinata o distrutta dalla pressione del “mercato”, quando si creano le condizioni di una spersonalizzazione e di una massificazione anonime, allora l’incontro sportivo diventa occasione per rafforzare, diffondere e far esplodere linee di violenza che hanno nel cuore dell’uomo e nella società la loro radice malata.

Il corpo

19. Presentando lo sport in dialogo con la Chiesa, Paolo VI diceva: «La Chiesa considera il corpo umano come il capolavoro della creazione nell’ordine materiale. Ma al di là dell’esame fisico e delle meraviglie che si nascondono in esso, ritorna il corpo alla sua origine, e si volge a Colui che l’animò di un “soffio di vita”, come dicono le Scritture, e ne fece la dimora e lo strumento di un’anima immortale. A questa prima dignità che il corpo trae dalla sua origine, si aggiunge agli occhi del credente quella che gli conferisce l’essere redento da Cristo e che consente a San Paolo di esclamare: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?… O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Corinti 5,15). C’è ancora di più agli occhi del cristiano: questo corpo fisico e votato alla morte, noi sappiamo che un giorno risusciterà per non morire più. “Io credo nella risurrezione dei morti” professa la Chiesa nella sua professione di fede. E’ il Cristo che l’ha promesso: “Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Giovanni 11,26). “E’ venuto il momento, ed è questo, in cui i morti in Cristo udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno” (Giovanni 5,25). Ecco alcuni brani, attraverso i quali la Rivelazione ci insegna la grandezza e la dignità del corpo umano, creato da Dio, da Lui riscattato, e destinato a vivere eternamente con Lui»[29].

La Rivelazione biblica e la fede cristiana presentano una visione positiva del corpo umano, ponendo le basi per una sua piena valorizzazione. Nella corporeità, infatti, si riflette e si dice la sapienza creatrice di Dio; di essa, nel grembo verginale di Maria, arca dell’alleanza e nuova Eva, si riveste il Verbo della vita, ponendo la sua tenda tra gli uomini; in essa risplende la Risurrezione del Signore, vittoria definitiva sulla morte, e la fede canta la propria speranza, come professiamo nel Credo: «Aspetto la risurrezione della carne e la vita del mondo che verrà».

L’attenzione alla corporeità manifesta in modo concreto il grande rispetto che si deve avere per il valore della vita. Non mancano, tuttavia, anche a questo proposito rischi e deviazioni. Si deve registrare, purtroppo, il crescente ricorso a una medicalizzazione sospetta o inquinata. La corporeità, sganciata dall’unità propria dell’uomo e ridotta a cosa o strumento, è calpestata nella inestimabile dignità che le è propria, in quanto essa è costitutiva della persona umana. La sua stupenda armonia non esalta l’immagine originaria del Creatore, ma viene deformata e asservita alla schiavitù del risultato. E’ compromessa o negata la virtù della lealtà, che fa della competizione sportiva un campo di espressione dei talenti di ciascuno e di lode a Colui che li ha donati. La luminosa capacità educativa e promotrice della persona propria dello sport, si rovescia allora nella tenebra di una controtestimonianza diseducativa. Anche questa, a suo modo, è una forma di impudicizia (cf 1 Corinti 6,13).

L’attenzione al corpo, alla sua efficienza e al suo aspetto caratterizza la mentalità d’oggi. Ma tra la motivazione igienica e quella estetica – di per sé legittime e giuste – si insinua, non poche volte, una forma ambigua e decadente di narcisismo, che stoltamente rimuove il senso del limite e insegue il mito dell’eterna giovinezza.

Il corpo, luogo della relazione con se stessi, con l’altro e con il mondo – nonché con Dio stesso -, è esposto alla perdita del suo autentico significato. Per questo lo sport può diventare esso stesso fattore di alienazione e di schiavitù della persona; ma, all’opposto, può anche costituire un’occasione privilegiata di riscatto e promozione dell’uomo, fino a iscriversi in quel “culto spirituale” di cui parla l’apostolo Paolo: «Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani 12,1).

L’agonismo

20. «L’agone fisico – diceva Pio XII – diventa quasi un’ascesi di virtù umane e cristiane; tale anzi deve diventare ed essere, per quanto sia lo sforzo richiesto, affinché l’esercizio dello sport superi se stesso, consegua uno dei suoi obiettivi morali»[30].

L’agonismo è una componente insopprimibile della pratica sportiva. I fattori di problematicità, che esso pone alla finalità educativa e in particolare alla sensibilità cristiana, non possono essere superati con soluzioni di comodo. Così la frase spesso ripetuta “l’importante non è vincere, ma partecipare” fa torto alla verità. Il desiderio di vincere, di ottenere un risultato soddisfacente appartiene come elemento intrinseco e irrinunciabile alla pratica sportiva. E’ fattore di stimolo, di miglioramento e di emulazione. Ciò che deve essere escluso è che la competitività, l’agonismo e lo sforzo siano vissuti “contro” l’altro. Si deve educare a vincere non sull’altro, ma al gioco e alla prova che esso propone. Si gioca insieme, non contro, in una competizione leale e serena.

Ciò esige un cammino formativo di grande impegno morale. Nel cuore dell’uomo insorgono di continuo la spinta alla prevaricazione, la tensione negativa, mai del tutto vinta, del peccato: solo se questa lotta interiore è combattuta e superata, l’agonismo sportivo – come ogni altra competizione umana – trasforma la rivalità in confronto aperto, in apprezzamento dell’altro e delle sue capacità. Ancora una volta, la ricerca del risultato e della supremazia ad ogni costo conducono dalla competizione alla rivalità, dal confronto al contrasto.

Si deve perciò attivare uno sforzo educativo in profondità. E si deve senz’altro chiarire, contro tutte le teorie della “bontà” del conflitto, riconosciuto addirittura come forza propulsiva della storia, che se l’agonismo è positivo, l’aggressività è nefasta; se l’emulazione è traente, la rivalità è deleteria; se lo sforzo è costruttivo, la violenza è distruttiva[31]. L’esasperazione dell’agonismo e l’abdicazione alla dimensione ludica conducono lo sport ad essere immagine non più della vita, ma della guerra.

Inoltre, l’agonismo non ben controllato e orientato può diventare attentato alla vita: il rischio cui la prestazione sportiva espone, nei confronti non solo dell’ “avversario” ma anche di se stessi, non può essere spinto oltre ogni limite in nome del successo; e la sua determinazione non può essere lasciata alla esasperazione della volontà di potenza. Ne può derivare un incremento delle soglie di rischio, in nome del risultato o di una più avvincente spettacolarità. E’ così disattesa l’istanza morale, che mette al primo posto la persona e la salvaguardia del valore della vita[32].

Di fatto, la cattura dell’agonismo da parte delle forze economiche e ideologiche rende assai problematica la già difficile conservazione dell’aspetto di gioco e di divertimento, attraverso il quale lo sport si mantiene tra le espressioni significative della libertà e della creatività. Esso rischia così di essere ridotto, ancora una volta, a strumento di profitto alienante.

E’ di grande utilità, in questo contesto, orientare educativamente agli sport di gruppo, al gioco di squadra: educare cioè alla vittoria corale, non frutto di protagonismo individuale, ma di altruismo solidale.

La dimensione socio-culturale

21. Le considerazioni precedenti hanno mostrato l’ambivalenza della pratica sportiva. Non è scontato e automatico che lo sport riesca a realizzare, quasi per capacità propria, i valori e le potenzialità positive che racchiude in sé. Alle difficoltà e debolezze, che la pratica registra, si aggiunge poi la notevole pressione dei fattori sociali ed economici. Insomma, lo sport non è l’isola felice in cui ancora vigono regole di cavalleria, trasparenza, confronto leale e aperto.

«Lo sport è certamente una delle attività umane più popolari che molto può influire sui comportamenti della gente, soprattutto dei giovani; tuttavia, anch’esso è soggetto a rischi ed ambiguità; deve, pertanto, essere orientato, sostenuto e guidato perché esprima in positivo le sue potenzialità»[33].

Questa ambivalenza riappare con forza sul piano socio-culturale, in cui lo sport è inserito e con cui interagisce significativamente: basta anche solo registrare le conseguenze che sullo sport determina l’invadenza della logica efficientista, industriale, spettacolare. Nei suoi interventi magisteriali, la Chiesa non manca di richiamare l’attenzione di tutti su questi aspetti di problematicità: «Non possiamo nascondere – dice Giovanni Paolo II – come non manchino purtroppo, anche in questo tempo, aspetti negativi o per lo meno discutibili, che oggi vengono giustamente analizzati e denunciati da persone specializzate nell’osservazione del costume e del comportamento»[34].

La diffusione massificante

22. Già la crescente diffusione dell’interesse e della pratica sportiva fa problema. Non si tratta certo di rimpiangere l’epoca in cui lo sport era appannaggio di pochi, dunque selettivo ed elitario. La larga partecipazione ad esso, da sostenere e perseguire, ha tuttavia favorito, di fatto, anche alcune conseguenze negative, come la manipolazione, l’incompetenza e, paradossalmente, la passività.

Si deve lamentare, anzitutto, la facile manipolazione a fini prettamente speculativi sia dell’atleta che del pubblico. Lo sportivo vede così la sua professionalità piegata agli interessi di immagine e di incasso; la ricerca dei talenti scade a raccolta di “strumenti”, attratti con il miraggio della gloria e offerti sul mercato al miglior offerente. Ma anche il cittadino comune non va esente da manipolazioni. E’ sollecitato, sul versante della pratica attiva (palestre, corsi…), da promesse di efficienza fisica e di successo nella vita di relazione lavorativa e personale; come spettatore, poi, è raggiunto e colpito da raffinate tecniche di cattura con frequenti spot pubblicitari, sponsorizzati ad arte; il coinvolgimento emozionale e la partecipazione agonistica creano, infatti, un’atmosfera psicologicamente molto propizia alla forza di penetrazione dei messaggi, fino a quelli subliminali, disseminati nei contorni (e non solo) dell’arena.

Non si deve dimenticare, poi, il rischio del condizionamento ideologico: a differenza del gioco spontaneo anche se i confini non sono rigidamente determinabili, lo sport è profondamente segnato dai modelli di società che lo esprimono e dagli interessi che in essa dominano, tanto da risultare potenzialmente ideologico in senso economico-politico. L’antico motto “panem et circenses” lo esprime con efficacia. Questo rischio non è solo dell’epoca moderna, ma largamente presente fin dall’antichità: come ogni altra forma di decadimento etico, non è riconducibile semplicisticamente alle strutture della società, che pure hanno il loro marcato influsso, ma trova radice anzitutto nella ferita che si annida nel cuore di ogni discendente di Adamo.

23. Lo sport praticato registra inoltre, salvo che in ambito professionistico, fenomeni di livellamento qualitativo e di incompetenza, con inevitabili riflessi negativi sulla formazione della personalità e su alcuni aspetti della salute.

Il rilievo di incompetenza tocca da vicino anche la realtà pastorale. E’ ancora diffusa, purtroppo, la convinzione, del tutto superficiale e infondata, che qualunque persona, anche se non specificamente qualificata, possa comunque promuovere e organizzare attività sportive. In un tempo complesso come il nostro, dove gli equilibri non sono garantiti dal contesto ambientale, le dinamiche di carattere psicologico, sociologico, antropologico, pedagogico e culturale, che l’attività sportiva comporta, devono essere oggetto di una seria attenzione. Considerarla come “campo neutro” è imperdonabile errore. Non ci si avvede, così, che vengono acriticamente recepiti – e magari coltivati e sottolineati nelle stesse realtà associative e parrocchiali – i modelli diffusi nella pratica corrente. E spesso sono modelli non coerenti, se non addirittura in contrasto, con i riferimenti e i contenuti specifici dell’educazione cristiana. Come si vede l’istanza pedagogica e pastorale di una riflessione seria e rigorosa manifesta tutta la sua importanza anche in ambiti comunemente ritenuti marginali o di scarsa rilevanza educativa. Questo mostra inoltre l’urgenza di dotare di un apposito bagaglio formativo e tecnico gli animatori dello sport, specie quelli che operano, spesso come volontari, tra i ragazzi.

24. Molto spesso la sportivizzazione diffusa della società non produce lo sportivo, ma la figura del tutto moderna del consumatore di sport. Paradossalmente, ma non innocentemente. La crescente diffusione dello sport “parlato” più che “praticato” dipende da una occulta manipolazione, guidata da interessi di parte. Domina, ancora una volta, la legge del mercato. Assumono sempre maggior rilevanza prospettive in cui sono al primo posto obiettivi esterni allo sport in quanto tale. Esterni, anche, alla formazione della persona, ma funzionali alla sua sopravvivenza e affermazione nel contesto della società: lo sport agisce da valvola di scarico, da ammortizzatore psicosociale, e consente di riequilibrare quelle tensioni che la frammentazione dei sistemi sociali e la spersonalizzazione dei rapporti produttivi vengono sempre più generando. Ciò spiega perché sia troppo spesso tollerata la violenza negli stadi e sopportato il costo, tutt’altro che irrilevante, del danneggiamento degli impianti e del dispiegamento di Forze dell’Ordine Pubblico che ormai ogni manifestazione sportiva comporta.

La cattura dello spettacolo

25. Il carattere di rappresentazione scenica appartiene alla tradizione sportiva fin dall’antichità. Oggi, però, è conclamato e condizionato dalle esigenze imperiose dei mezzi di comunicazione nella civiltà dell’immagine. Orari, strumenti e regolamenti subiscono modificazioni non marginali in funzione, non tanto della migliore esplicazione e fruizione sportiva, quanto della migliore ripresa e riuscita televisiva. Aumenta la pressione divistica sui campioni, sottoposti a stress innaturali dai livelli di attesa creati dai media, con l’inevitabile rimbalzo divistico e l’altrettanto inevitabile contraccolpo della disillusione e della frustrazione, quando il campione attraversa un periodo di non-forma o si esaurisce l’arco, spesso non lungo, delle prestazioni ottimali. E’ la logica perversa dei circenses dilatata a dimensione planetaria. Lo sport diventa così schiavo della sua messinscena.

Non che l’aspetto spettacolare sia in se stesso negativo. Le dimensioni di gioco e di festa, strettamente collegate al fatto sportivo, conducono linearmente alla spettacolarità. Ma la sua esasperazione, prodotta da motivazioni di potere, economico o di immagine, che si sovrappongono e prevaricano, sovverte l’ordinata gerarchia dei valori: il mezzo diventa fine, il fine mezzo. Insorgono così esigenze negative ed improprie; in primo luogo, la professionalizzazione precoce ed esasperata, che riduce la persona a strumento di produzione.

La comunità cristiana non può rimanere indifferente di fronte ad una cultura diffusa che dello sport sottolinea solo gli aspetti emotivi, consumistici e spettacolari. Neppure può accontentarsi di unirsi a quanti, spesso solo a parole, condannano tali deviazioni. Ma, ben sapendo dalla Parola di Dio e dall’esperienza amara di ciascuno che l’uomo è un essere fragile e incline al male, sicché ogni sua espressione storica può essere negativamente contagiata, la Chiesa richiama la responsabilità di tutti alla vigilanza. Inoltre, con coraggio profetico, denuncia le cause personali, sociali e culturali della spettacolarità alienante e si adopera con sollecitudine pastorale per salvaguardare i più indifesi, come i bambini e gli adolescenti.

26. L’incidenza degli strumenti di comunicazione sul fatto sportivo merita qualche ulteriore considerazione. Lo sport sembra essere diventato una realtà che si svolge soprattutto fuori dal campo: discussioni, schermaglie, notizie ghiotte… Si viene così a istituire una circolarità viziosa: gli sport esistono solo se i media parlano di loro; ma i media sopravvivono solo se parlano di sport. Con conseguenze non piccole sul piano dell’attenzione e dell’informazione rispetto ai problemi fondamentali e pressanti della persona e della società.

Si genera una sorta di ingigantimento dell’apparato informativo, economico e promozionale, rispetto al quale lo sport come tale finisce per diventare accessorio e strumentale. La spettacolarizzazione, poi, non viene giustificata da motivazioni estetiche – che mantengono una loro dignità, benché esposta a molteplici rischi -, ma economiche: lo sport soggiace alle leggi della produzione, del mercato, del profitto. Il tempo libero diventa tempo consumato solo a pagamento, da parte sia degli spettatori sia dei protagonisti. In questo senso, lo scadimento è ancora maggiore rispetto alle deviazioni dell’agonismo: si gioca non per vincere, ma per guadagnare.

Questo aspetto non è senza riflessi negativi anche sul piano pedagogico: la commistione tra spettacolarismo e incompetenza incrementa l’attrattiva del mondo magico dei ‘campioni’ e può generare, insieme, la convinzione-illusione di una certa facilità dello sport professionistico e dei suoi successi. Si favorisce in tal modo la propensione diffusa a conseguire obiettivi prestigiosi senza fatica. Sta qui una delle radici di quelle deviazioni gravissime che sono il doping e la corruzione.

In questo quadro acquista rilievo la tendenza dei canali informativi a privilegiare quasi in esclusiva lo sport spettacolare di rilevanza economica. A ciò fa spesso riscontro, purtroppo, una informazione giornalistica attenta allo scandalo e allo scoop, piuttosto che preoccupata della comunicazione e del commento dei fatti sportivi, e non da ultimo dell’educazione di un pubblico chiamato ad essere serenamente partecipe e criticamente competente. Di ben poca attenzione gode, al contrario, lo sport semplice e schietto praticato da tante realtà associative che, fatte meglio conoscere e apprezzare, potrebbero ampliare il loro prezioso servizio, sanamente ricreativo e formativo. Dovrebbe essere preoccupazione e vanto del giornalismo sportivo informare anche di queste realtà, invitare lo spettatore alla loro considerazione, inserire tali manifestazioni nelle trasmissioni radiotelevisive, perché siano godute e fruite da un sempre maggior numero di persone.

La critica dello sport spettacolo non è certo in ordine a un suo rifiuto globale: se lo spettacolo è bello, è anche elevante e godibile. Essa mira al discernimento dei processi imitativi che vi sono insiti, con delicatissimi riflessi sul piano della formazione della persona. Tale critica è soprattutto in ordine alla valorizzazione dello stesso sport spettacolo, per aiutarlo a riscoprire la sua autentica capacità di festa nella grigia e anonima dispersione del mondo urbanizzato, ravvivando in tal modo la gioia del vivere insieme, in serenità e fiducia reciproca.

La pressione economica e la formazione della persona

27. Lo sport rappresenta un settore trainante, tra i più consistenti, dell’economia italiana. Sotto questo profilo, si rivela come fonte anche di occupazione e di benessere. Ma anche sotto questo aspetto non va esente da ambiguità: infatti, l’ingente indotto economico derivante dallo sport, se da un lato produce beni finanziari non secondari, dall’altro nasconde rischi e deviazioni dovuti a un processo di reificazione dello sport, sfruttato ai fini esclusivi di profitto e guadagno.

In realtà, gli sponsor e i loro condizionamenti, l’esigenza di spettacolarità, gli orari e l’intensificazione delle manifestazioni sportive, l’esasperazione degli aspetti competitivi hanno trasformato molte attività sportive da svaghi ludici a pratiche di professionisti a beneficio di una platea di spettatori.

Non si vuole certo censurare drasticamente ogni collegamento degli aspetti di interesse economico al fatto sportivo, né idealizzare, in modo retorico e quindi falso, il dilettantismo puro. Si vuole, piuttosto, reagire a una impostazione in cui tutto, dalla programmazione alla selezione, obbedisce alla suprema legge del profitto. A questa prospettiva non interessa lo sport popolare praticato, ma quello consumato da masse sempre crescenti.

Vi sono soggetti che, in vista della pratica sportiva professionistica, vengono reclutati fin dalla fanciullezza e accolti in convitti e collegi delle società sportive, con esiti preoccupanti di sradicamento, di difficoltà di inserimento sociale, di artificiosità formativa e scolastica, di allontanamento dalla pratica religiosa e dalla vita ecclesiale. Non sembra esagerato affermare che si tratta di persone a rischio per quanto riguarda il loro processo di identificazione soggettiva.

Si diffonde il fenomeno del precocismo, fino a vere e proprie forme di abuso dell’infanzia. Un “bisogno” inconscio dei genitori si incontra qui con un interesse, ben conscio e pilotato, delle agenzie economiche e “sportive”, generando una forma di reclutamento e una prassi agonistica non conformi alla dignità personale e ai tempi di crescita dei ragazzi. D’altro canto, le esigenze della competizione sportiva, sempre più esasperata, premono con forza. Difficile sfuggire a queste esigenze, senza uno stacco coraggioso di mentalità, senza un progetto culturale significativo.

Questa impostazione produce conseguenze negative anche nello sport “passivo”. L’appartenenza alle diverse tifoserie delle società tende a degradarsi nella esasperazione della fruizione indiretta: anche attraverso i mass-media, lo sport produce quelle forme ambigue o addirittura deviate di aggregazione, di esaltazione collettiva, di aggressività, a volte oltre la capacità di autocontrollo, che purtroppo sembrano diventate cronaca settimanale, nell’atmosfera surriscaldata degli stadi, con esiti deleteri per le persone e per lo stesso sport[35].

In realtà la questione della violenza nello sport si manifesta di natura complessa, ma è certo che purtroppo l’evento sportivo fa da detonatore e da catalizzatore rispetto a disagi diffusi, sia a livello personale che sociale, di cui sono vittima soprattutto giovani e giovanissimi che vivono nelle periferie urbane e suburbane.

Parte terza

LA RESPONSABILITA’ ECCLESIALE

28. La Chiesa, nella sua missione di “madre e maestra”, sente come proprio e irrinunciabile il compito di aiutare i cristiani e gli uomini di buona volontà nell’opera, non sempre facile e immediata, di discernimento del fenomeno sportivo, in ordine a coglierne le grandi opportunità, ed insieme a smascherarne le strumentalizzazioni ideologiche ed economiche.

La Chiesa sente di aver ricevuto dal suo Signore una “notizia buona e lieta” riguardante anche lo sport: questa “notizia” essa è chiamata ad annunciare e testimoniare a tutti anche in questo ambito della esperienza umana. Il messaggio cristiano sullo sport ha come centro l’uomo nella sua altissima e inalienabile dignità di persona, di essere creato ad immagine di Dio, salvato da Cristo redentore e santificato dallo Spirito.

La Chiesa è convinta che la luce della fede offre un contributo originale e determinante alla umanizzazione dello sport, senza che ne vengano in alcun modo limitate o mortificate le autentiche possibilità di crescita umana e civile: ne vengono, piuttosto, confermate ed esaltate. La Chiesa non intende certo imporre la propria visione a nessuno. La propone soltanto, con semplicità e convinto entusiasmo, nella certezza che proprio dall’accoglienza di questa visione deriva un bene grande per gli uomini, per gli sportivi in particolare e per l’intera società.

In questo senso Paolo VI esprimeva la sua “simpatia per tutti gli sportivi” e la sua “stima per lo sport” e così presentava la posizione della Chiesa: «La Chiesa vede nello sport una ginnastica dello spirito, un esercizio di educazione fisica, e un esercizio di educazione morale; e perciò ammira, approva, incoraggia lo sport nelle sue varie forme, in quella sistematica specialmente, doverosa a tutta la gioventù e rivolta allo sviluppo armonico del corpo e delle sue energie; ed in quella agonistica […]. E lo ammira la Chiesa, lo approva e lo incoraggia lo sport, tanto più se l’impiego delle forze fisiche si accompagna all’impiego delle forze morali, che possono fare dello sport una magnifica disciplina personale, un severo allenamento ai contatti sociali fondati sul rispetto della persona propria e della persona altrui, un principio di coesione sociale, che arriva a tessere relazioni amichevoli perfino sul campo internazionale»[36].

I. IL COMPITO PASTORALE

29. La Chiesa ha dunque un preciso compito pastorale anche nei riguardi dello sport; anzi, come afferma Giovanni Paolo II, «la Chiesa deve essere in prima fila per elaborare una speciale pastorale dello sport adatta alle domande degli sportivi e soprattutto per promuovere uno sport che crei le condizioni di una vita ricca di speranza»[37].

Il compito pastorale della Chiesa si configura come un compito essenzialmente educativo. E’ infatti una realizzazione del suo essere “madre e maestra”.

La sfida educativa

30. Educare è sempre impresa ardua, ma del tutto necessaria, oggi in particolare. Ed è un compito inderogabile. E’ quindi molto importante che la comunità ecclesiale, per prima, sia consapevole della forza che lo sport può sprigionare nel campo dell’educazione. Non si vuole certo alimentare nessuna enfatizzazione o esaltazione mitica dello sport; ma, riconosciuta la sua incidenza e capacità plasmatrice nei riguardi delle giovani generazioni, si intende assumerne responsabilmente le grandi e positive potenzialità, sottraendole a possibili logiche di sopraffazione e di sfruttamento.

In genere alla pratica sportiva professionistica, anche molto precoce, raramente viene riconosciuto quel compito formativo che invece è attribuito allo sport dilettantistico delle associazioni. Una simile impostazione è errata. Infatti l’aspetto pedagogico dell’attività sportiva e la sua ricchezza di valori non devono andare smarriti con l’emergere della esigenza di spettacolarità, l’accendersi del confronto agonistico e il premere dell’interesse economico: anche le attività sportive altamente competitive possono e devono mantenere ben chiaro il riferimento irrinunciabile alla crescita della persona, sia di chi pratica, sia di chi partecipa da spettatore, a partire dal rispetto dell’identità biologica e psicologica, per comprendere le istanze di valori e le esigenze morali che vi sono coinvolte, fino all’impatto sui fruitori e sui sostenitori. La valenza educativa, infatti, pur essendo legata principalmente allo sport praticato, si fa esigente anche nello sport passivo: anche in esso incidono, e non poco, l’immagine, il modello di riferimento, il “campione”, con il suo atteggiamento e il suo comportamento, sia in campo che nella vita.

E’ dunque da condividere e rilanciare con forza l’affermazione del Papa: «Tutto lo sport può e deve essere formatore, cioè contribuire allo sviluppo integrale della persona umana»[38].

L’identità personale e l’appartenenza sociale

31. Con la sua forza tipica di coinvolgimento totalizzante[39], l’attività sportiva gioca un ruolo non marginale nella costruzione della personalità. Sono ben note, al riguardo, le dinamiche di identificazione che vengono messe in campo. Esse possono svolgere un compito fruttuoso durante la prima adolescenza, in cui è presente l’insidia narcisistica e sta in agguato il ripiegamento involutivo su di sé. Agli albori della giovinezza, l’attività sportiva contribuisce ad uscire da se stessi e offre rassicurazioni notevoli sul piano della identità personale. Si tratta di una fase costruttiva che ha il suo sbocco positivo nel profilarsi della maturità, capace ormai di distinguere e gerarchizzare i livelli di appartenenza sociale.

Solo il raggiungimento di tale traguardo di maturità attesta la qualità educativa della pratica sportiva. Il fenomeno del divismo, al contrario, prepara non l’identità ma la spersonalizzazione: la “febbre da tifo”, che colpisce non pochi adulti anagrafici, nasconde qualche venatura adolescenziale, è segno di un itinerario formativo non equilibratamente risolto. La carenza di riferimenti forti e di ancoraggi sicuri viene così maldestramente supplita dalla appartenenza sportiva, tende a dilatarsi coinvolgendo e compromettendo i rapporti familiari e sociali.

La pratica sportiva, più nettamente quella attiva che non quella passiva, si mostra coefficiente di sicura efficacia nel processo di affermazione di sé. Non si dà crescita equilibrata senza stima di sé, senza una sufficiente esperienza di successi. Quando ciò viene a mancare, si assiste al ripiegarsi su se stessi, con manifestazioni di insicurezza, di ansia, fino al ricorso alla droga, o al prevaricare sugli altri, mediante l’estremismo fanatico e violento.

Lo sport, se correttamente inteso e promosso, offre singolari possibilità educative, attivando l’essenziale dimensione di impegno e di sacrificio, tanto importante per acquisire l’autentica libertà, che è padronanza di sé e dono di sé nell’amore. Può condurre anche all’oblatività evangelica, con aspetti profondamente ascetici, fino a giungere a quella maturità e a quella ricchezza spirituale della persona che sole possono far superare il gioco perverso innestato da una competitività esasperata e da una motivazione prettamente economica. L’aspetto agonistico, infatti, presenta la stessa mescolanza di fattori positivi e negativi che caratterizza l’esistenza umana. La prospettiva cristiana valorizza queste realtà, senza facili condanne e false esaltazioni.

L’incentivo e la sana emulazione vanno promossi e orientati. La conflittualità non va negata, ma riconosciuta nella sua quasi-inevitabilità e combattuta non solo con un impegno volontaristico, ma in forza della vita nuova nello Spirito. Che lo sport attivo e passivo, in quanto altamente ritualizzato, permetta automaticamente un sicuro controllo dei fenomeni aggressivi è affermazione che pochi oggi si sentirebbero di sostenere senza le necessarie distinzioni e precisazioni. Prezioso per imparare il dominio di sé, lo sport deve essere riscattato dalla sua “naturale” propensione a trasformarsi in modalità, socialmente accettata e codificata, di dominio sugli altri. Al romantico e irrealistico “l’importante non è vincere, ma partecipare”, la sapienza educativa cristiana contrappone l’impegno di conversione di mentalità e di prassi per cui “l’importante è l’affermazione di sé insieme agli altri”, nel rispetto assoluto della persona.

L’azione sportiva esprime la profonda unità della persona. A tal fine, la prestazione atletica non deve mai essere separata dalla sua intenzionalità profonda. Fermarsi alla pura capacità fisica significa allontanarsi dalla pienezza umana della pratica sportiva per piegarsi a forme di strumentalizzazione. Se questo avviene, lo sport, invece di favorire la creatività espressiva e autenticamente libera che è scritta originariamente nell’intimo dell’uomo, diventa una riedizione della sua occupazione, dettata dal tornaconto e dal bisogno. La prospettiva cristiana, al contrario, offre alla pratica sportiva quell’orizzonte di globalità soggettiva – l’unità della persona – e oggettiva – la totalità di senso – che ne garantiscono la corretta e fruttuosa esplicazione.

32. Lo sport appare immediatamente anche come rilevante fattore di socializzazione. Lo è perché impone il rispetto delle regole del gioco; perché insegna il “gioco di squadra”; perché mobilita, raccoglie e mette a confronto popolazioni intere di appassionati. A questa valenza, in sé largamente positiva, fa riscontro il rischio – per nulla ipotetico – di infiltrazioni degenerative: le regole si piegano alla legge del più forte, il gioco contrappone ed oppone concorrenti, il confronto si fa scontro teso e violento. C’è chi vede in tutto questo una salutare, terapeutica forza liberatrice, una sorta di imitazione attenuata e di provvidenziale surrogato della aggressività bellica. In realtà, dietro questa tesi si cela una visione dell’uomo che la fede cristiana non può in alcun modo condividere. Consapevole dello squilibrio che segna inesorabilmente la condizione umana in forza del peccato originale[40], la fede non commette l’errore di considerarlo “naturale”. Non riconosce allora, quale rimedio efficace o addirittura unico, lo sfogo – come si pretende – “controllato”. Più positivamente l’esperienza di fede dichiara la possibilità di un’autentica conversione e di un vero riscatto di tutto l’umano, pur nella gradualità e non senza fatica. Ricreato in Cristo, il cristiano è chiamato a testimoniare anche nel mondo dello sport l’efficacia di rinnovamento di mentalità, di atteggiamenti e comportamenti derivanti dall’originalità del Credo professato. Se non esiste uno “sport cristiano”, è invece pienamente legittima una visione cristiana dello sport, che non si limita a conferire ad esso i valori etici universalmente condivisi, ma avanza una prospettiva propria, innovativa e coerente, nella convinzione di fare un servizio sia allo sport che alla persona e alla società.

La ricchezza educativa del fatto sportivo non si riduce alla formazione di alcune qualità del soggetto. Tende a raccordare i valori riscontrati nell’ambito sportivo con il vissuto quotidiano. Lo spirito di squadra diventa pertanto capacità di vivere e lavorare in gruppo; la giusta valorizzazione della corporeità favorisce un equilibrato rapporto con se stessi e una serena vita di relazione sociale e interpersonale; l’agonismo ben impostato abilita sia a non smarrirsi nei momenti di prova come pure a non cedere alla prevaricazione e alla sopraffazione, alla eliminazione del concorrente a qualsiasi costo. Fin dalla prima età, i giochi con regole – in particolare quelli tradizionali, portatori di esperienza pedagogica vagliata dal filtro delle generazioni – costituiscono occasioni preziose per la formazione di una personalità matura ed aperta.

Tutto ciò suscita seri interrogativi, sul piano formativo, circa la diffusa comprensione e pratica dello sport e, più in generale, del tempo libero acquisito e vissuto come “compensazione”: inconscia ricerca di autentiche relazioni interpersonali e sociali nonchè di soddisfazioni creative nell’ambito dello studio o del lavoro, in alternativa alle forme di quotidianità anonima, stressante e spersonalizzante. Questa strumentalizzazione dello sport, funzionale agli scompensi della società moderna, non può essere scusata in nome del “minor male”. Pur con la necessaria gradualità e pazienza, ma senza nessuna connivenza, la verità cristiana spinge a ridare alla pratica sportiva tutta la sua valenza di crescita in umanità e di istanza critica e non di copertura delle disfunzioni non innocenti della società.

Liberato da ottimismi e interpretazioni strumentali, lo sport è in grado di favorire la socializzazione dei soggetti considerati “difficili”, o comunque in condizione di problematicità. A ciò contribuiscono, sul piano soggettivo, il clima di accoglienza e di reciprocità, l’esemplare comportamento delle figure di riferimento come i campioni, non solo di rilievo nazionale o internazionale, ma anche a livello locale e di squadra, e il riconoscimento comune di ruoli e compiti direttivi. Sul piano oggettivo, diventano significativi l’inserimento di tali soggetti in un contesto regolato da norme impegnative per la lealtà di tutti come pure lo sforzo per disciplinarne l’aspetto conflittuale dell’esistenza personale.

Questo comporta che sia effettivamente superata quella tirannia dello sport che lo trasforma in una sorta di condanna sociale, in un hobby che è più vincolante del lavoro. Di fatto se viene sottratto alla spontaneità creativa della dimensione ludica, lo sport smarrisce la sua qualità comunicativa, la sua capacità ricreativa e la sua indole di integrazione armonica nella società.

Una scuola di vita

Palestra di virtù

33. La pratica sportiva appare come luogo propizio per la coltivazione e lo sviluppo delle qualità proprie dell’esistenza cristiana, oggi non facilmente riscontrabili in altri contesti vitali. Il progetto formativo cristiano non si sovrappone alla pratica sportiva, né la accoglie acriticamente: ne riconosce e ne esalta, piuttosto, la capacità pedagogica, inserendola nell’orizzonte della fede e della concezione globale della persona umana che da essa consegue.

«Lo sport – diceva Giovanni XXIII – ha ancora nella vostra vita un valore di primo ordine per l’esercizio delle virtù. […] Anche nello sport, infatti, possono trovare sviluppo le vere e forti virtù cristiane, che la grazia di Dio rende poi stabili e fruttuose»[41].

Così, la disciplina sportiva appare particolarmente idonea a generare e irrobustire alcune virtù umane e cristiane, come l’obbedienza e l’umiltà, intese non certo come rinuncia ripiegata e passiva, ma come alta espressione di quella forza interiore di cui parla l’apostolo Paolo (cf. 1 Corinti 9,25.27). Il gioco di squadra, a sua volta, insegna i limiti e i rischi della competizione personale, come pure si apre – se ben orientato e condotto – a vere forme di altruismo, all’amore di fraternità, al rispetto reciproco, alla magnanimità, al perdono. Le stesse leggi del rendimento fisico, se non assolutizzate, preparano il terreno favorevole al dominio di se stessi, alla modestia, alla temperanza, alla prudenza e alla fortezza.

Paolo VI, ispirandosi all’antico adagio “mens sana in corpore sano”, parla delle virtù cardinali nello sport: «Noi pensiamo con voi alla padronanza del proprio corpo. Che bisogno di perseveranza e di tenacia! La forza d’animo non ha forse un posto importante tra le quattro virtù cardinali? L’ascesi degli sportivi, che san Paolo prende ad esempio nella sua prima lettera ai Corinzi, non ricorda forse la virtù delle temperanza? L’obbligo rigoroso di prepararsi ed equipaggiarsi bene per le prove non è forse vicino alla prudenza? L’uguaglianza delle capacità tra i giocatori, l’arbitraggio imparziale dei concorrenti, il fair-play dei vinti, il trionfo contenuto dei vincitori non sono forse degli appelli a praticare la virtù della giustizia? E se queste virtù morali contribuiscono alla piena realizzazione della persona umana, come potrebbero non ripercuotersi sulla società intera?»[42].

Lo sport appare campo propizio per lo sviluppo di uno stile di collaborazione e di solidarietà, opponendosi efficacemente alla tendenza individualistica, assai presente nella società contemporanea.

Gli ambiti della pratica sportiva, così ampiamente dilatati dai mezzi di comunicazione, possono diventare ancora luogo privilegiato di testimonianza cristiana: nell’ambito della competizione, della squadra, della società sportiva; e segnatamente nei confronti dello spettatore, che è portato a fare del “campione” un modello di riferimento comportamentale e ideale. La forza esemplare dello stile di vita, manifestato nella concretezza dell’agire e senza alcun esibizionismo, ha capacità di incidenza difficilmente paragonabile a quella della parola esortativa.

Così Pio XII esaltava la valenza educativa dello sport: «L’educazione sportiva vuole inoltre formare i giovani alle virtù proprie di questa attività. Esse sono, tra le altre, la lealtà che vieta di ricorrere a sotterfugi, la docilità ed obbedienza ai saggi ordini di chi guida un esercizio di squadra, lo spirito di rinunzia quando occorre tenersi in ombra a vantaggio dei propri “colori”, la fedeltà agli impegni, la modestia nei trionfi, la generosità per i vinti, la serenità nell’avversa fortuna, la pazienza verso il pubblico non sempre moderato, la giustizia se lo sport agonistico è legato a interessi finanziari liberamente pattuiti, ed in generale la castità e la temperanza, già raccomandata agli antichi. Tutte queste virtù, sebbene abbiano come oggetto un’attività fisica ed esteriore, sono genuine virtù cristiane, che non possono acquistarsi senza un intimo spirito religioso e, aggiungiamo, senza il frequente ricorso alla preghiera»[43].

L’autentico concetto di virtù, oggi disatteso ma sempre centrale nell’ambito della fede e dell’etica, appare dunque un fattore di reciprocità e di correlazione tra l’educazione sportiva e la formazione della personalità cristiana, ed un aiuto ad escludere più decisamente dallo sport possibili forme di primitivismo religioso che conducono ad atteggiamenti – a volte anche visibilizzati – di superstizione e a gesti in qualche modo magici.

Analogia con la vita spirituale

34. Si comprende bene, in questo contesto, l’insistenza a mettere in correlazione la pratica sportiva e la vita spirituale del cristiano. Lo sport, diceva Paolo VI, «è un simbolo d’una realtà spirituale che costituisce la trama nascosta, ma essenziale, della nostra vita; la vita è uno sforzo, la vita è una gara, la vita è un rischio, la vita è una corsa, la vita è una speranza verso un traguardo, che trascende la scena dell’esperienza comune, e che l’anima intravede e la religione ci presenta»[44]. Ma è tutta la viva Tradizione cristiana, facendo eco all’apostolo Paolo (cf 1 Corinti 9,24-27; Filippesi 3,14), a ricorrere all’immagine della corsa e della gara sportiva per indicare alcuni tratti caratteristici della vita cristiana. Così un autore del secondo secolo, in una sua omelia, si rivolgeva ai cristiani: «Facciamo ogni sforzo sapendoci impegnati in una nobile gara, mentre vediamo che molti volgono l’animo a varie competizioni. Ma non saranno coronati se non quelli che avranno lavorato seriamente e gareggiato con onore. Sforziamoci perché tutti possiamo ottenere la corona. Corriamo nella via giusta, lottiamo secondo le regole, navighiamo in molti vincendo gli ostacoli, per essere coronati; e anche se non tutti riporteremo il primo premio, almeno avviciniamoci ad esso più che sia possibile. Chi nella gara si comporta in maniera sleale viene squalificato. E non dovrà essere condannato chi non osserva le giuste regole nella gara per la vita eterna?»[45].

Viene così riconosciuta in qualche modo una obiettiva predisposizione della pratica sportiva all’educazione cristiana, una felice congenialità dell’esperienza sportiva con quella religiosa: purché si tratti di sport correttamente inteso e vissuto. In tal modo si stabilisce, tra la formazione sportiva e l’educazione cristiana, una linea di circolarità e reciprocità feconda di cui richiamiamo alcuni elementi di particolare interesse.

Emerge anzitutto l’aspetto di impegno, di applicazione e di sforzo, di disciplina e di rispetto di regole di vita (non solo di gioco) particolarmente severe: una specie di patrimonio “ascetico”, capace di costruire personalità robuste. Lo stesso desiderio di andare oltre, di raggiungere nuovi traguardi prestigiosi, può diventare, se ben orientato, stimolo al combattimento spirituale, a superare se stessi, alla formazione permanente.

Anche su questo terreno, tuttavia, non mancano i rischi e le insidie. Un primo motivo critico viene, secondo alcuni, dalla constatazione che, nella sua sottolineatura della disciplina di vita, lo sport privilegia l’obbedienza e la distinzione dei ruoli, favorendo così una interpretazione autoritaria e discriminatoria dell’esistenza. Tale rilievo non può essere rivolto a ogni pratica sportiva, ma soltanto ad alcune sue discutibili realizzazioni, pena il censurare ogni forma di educazione che riconosca il valore e la funzione dell’autorità, e la corretta e sapiente gradazione dell’esercizio della responsabilità.

Un altro rischio, ancora più sottile: la valorizzazione dell’analogia ascetica e del combattimento spirituale – in sé perfettamente legittima – può arrivare ad un’errata interpretazione di stampo pelagiano, quasi che l’impegno e le buone opere dell’uomo siano sufficienti a salvarlo. E’ pertanto importante che, insieme alla tensione del superamento, di sé anzitutto, si svolga un opportuno lavoro educativo di integrazione psicologica e spirituale del limite e della sconfitta, come valida terapia all’enfasi prometeica. Un correttivo naturale e interno alla stessa pratica sportiva è dato dal fatto che essa si pone, correttamente, come disciplina che insegna ad attendere, a veder oltre il risultato, a relativizzare, a respingere la pressione della logica di supremazia, così come di quella mercificante e utilitaristica. «Il valore spirituale dello sport si deduce ancora da quel senso di provvisorietà, che, per la ricerca di sempre migliori affermazioni, caratterizza ogni competizione»[46].

Insegnando lo spirito e le tecniche dell’autogoverno, lo sport si mostra autentica scuola di formazione personale e di democrazia partecipativa.

Le istanze educative

35. Quando l’uomo organizza lo sport per il guadagno, tende allo spettacolo; quando in funzione dei trofei, mira alla vittoria; quando in funzione educativa, pensa alla persona.

Il fatto che l’attività sportiva sia largamente gradita, anche nei suoi aspetti impegnativi e “costosi”, facilita il compito educativo, soprattutto per una robusta formazione alla socialità, ecclesialmente importantissima, in un tempo sempre più frantumato e segnato dal soggettivismo e per un’energica proposta di vita, particolarmente difficile in una società opulenta e appiattita sulla mediocrità.

Senza la pretesa di delineare in modo compiuto itinerari veri e propri, è opportuno evidenziare alcuni riferimenti utili alla elaborazione di cammini di formazione nelle diverse realtà educative.

Educare alla gratuità

36. La dimensione ludica dell’uomo si rivela nella sua identità di gratuità: questa, verificabile dall’esperienza umana, appartiene all’essenza stessa dell’uomo, in quanto creato a immagine di Dio, somma e perfetta Gratuità. Ma il dato naturale va accolto, educato, arricchito di valore.

Così anche nello sport la dimensione ludica si accompagna, in profondità, alla gratuità. E questa esige di attuarsi sia attraverso il gesto sportivo vero e proprio – espressione plastica della gratuità -, sia nella prestazione di servizi e competenze mediante il volontariato sportivo, così meritevole di plauso e di riconoscenza.

La preoccupazione per la gratuità deve porsi come permanente e primaria, anche perché largamente disattesa o addirittura dimenticata in un mondo che fa riferimento massiccio alla razionalità strumentale, funzionale e commerciale. Proprio per questo la gratuità risulta più necessaria, considerato anche l’attuale contesto altamente competitivo, che la pratica sportiva rischia di esaltare piuttosto che correggere. La vera gratuità, dunque, si presenta come la sfida della pedagogia cristiana nel mondo dello sport. Sullo sfondo di questa radicale inversione di tendenza, lo sport riceve nuova possibilità di diventare scuola di vita, cioè di lealtà e di socialità, di libertà e di creatività, di gioia e di impegno.

Le indicazioni che seguono vanno colte in questa prospettiva qualificante.

Educare all’agonismo

37. L’istanza agonistica è connessa all’esperienza umana: già nella prima fanciullezza si manifesta in forma pienamente riconoscibile. Quanto di essa appartenga alla natura dell’uomo e quanto sia segno dell’influsso del peccato delle origini è quasi impossibile dirlo. A noi basta qui rilevare che la realtà agonistica è sempre costituita dall’intreccio di queste due radici, la natura e la condizione storica, che impongono una precisa attenzione educativa.

E’ da rifiutarsi ogni demonizzazione, retorica e improduttiva, o inesorabilmente frustrante, della tensione agonistica. Si tratta, piuttosto, di educare all’agonismo. Al centro sta l’osservazione non del se si possa, ma del come si debba competere e vincere, o perdere: anche qui, dalla logica dell’avere a quella dell’essere.

Per fare questo, è necessario operare il passaggio dalla competizione diretta a quella indiretta: nella prima vige il mito della vittoria, del superamento e della eliminazione dell’altro; nella seconda, l’emulazione tende al risultato senza farne il valore principale e decisivo. Non si tratta di uscire ingenuamente e retoricamente dalla prospettiva agonistica, ma di collocarla in un orizzonte diverso, cioè di interpretarla come possibilità di esprimere al massimo grado le potenzialità dell’opera creatrice di Dio. Il rispetto delle regole del gioco, la capacità di autocontrollo, il rispetto del concorrente e il riconoscimento del suo valore, la disponibilità alla collaborazione – soprattutto nel gioco di squadra, in cui a prevalere non è il singolo, senza che, peraltro, la sua individualità venga schiacciata o misconosciuta – la competizione come gara leale in cui il confronto stimola traguardi esaltanti, indipendentemente da chi concretamente li raggiunga per primo: ecco i riferimenti di valore pedagogicamente rilevanti.

Educare alla sconfitta

38. La dimensione pedagogica della pratica sportiva non è facile né automatica. Imparare a perdere senza considerarsi perdenti è un traguardo ambìto da ogni progetto educativo: ne dipendono in larga misura l’equilibrio emotivo e la tenuta di ‘personalità’ del soggetto. Una qualità che non si improvvisa: ciascun uomo conosce la frustrazione della sconfitta e la gelosia verso il vincitore. Essa richiede, piuttosto, una sensibilità basata sull’assimilazione di valori fondamentali, coltivata attraverso un vero tirocinio educativo, mediante dinamica di gruppo, revisione di vita, ecc., inserita in una atmosfera favorevole, in cui si indagano le cause dell’insuccesso, invece di perseguire il “colpevole” e lasciare che l’aggressività si scateni sul capro espiatorio. E’ necessario educarsi a riconoscere i limiti e le cadute di forma: senza farne una tragedia, ma accogliendoli serenamente come segni concreti di quella precarietà e imponderabilità da cui è segnata l’esistenza umana.

Sono essenziali, a questo scopo, momenti – sia programmati, sia attivati secondo l’opportunità – di confronto, di riflessione comune, di verbalizzazione delle proprie sensazioni e stati d’animo. Sullo sfondo, un approccio consistente e sereno al mistero del male, respingendo sia la presunzione che lo rovescia sull’altro, autogiustificandosi, sia l’introversione che cade nella prospettiva di ineluttabilità, la quale tende a sfociare nello sconforto o a rimbalzare nell’aggressività.

Educare alla vittoria

39. Educare alla vittoria è forse più difficile, ma non meno necessario che educare alla sconfitta, a causa della minore disponibilità psicologica a considerare le situazioni positive come problematiche e in qualche modo bisognose anch’esse di purificazione e di riscatto. Al di là dell’euforia del momento, la vittoria genera carichi di responsabilità che troppo spesso si risolvono in esaltazione illusoria o in rischioso logoramento interiore. La ponderazione, il senso del limite e della precarietà, la relativizzazione del successo sono atteggiamenti che non si improvvisano; anzi, essi possono emergere con buona capacità di tenuta solo se sono stati preparati da un formazione distesa nel tempo e consolidata in profondità.

In situazione di vittoria può anche profilarsi il pericolo del sopravvento di un leader, che pretende di egemonizzare meriti e risonanze del risultato, l’opposto del capro espiatorio in caso di sconfitta. E’ importante inoltre educare a ricoprire ruoli diversi, in controtendenza alla specializzazione eccessiva; è necessario respingere la tentazione di considerare male il concorrente; è decisivo restituire spazio psicologico e respiro di valore agli atteggiamenti di dedizione e di sacrificio, che forgiano il nerbo della personalità matura e sventano l’agguato delle sopraffazioni.

Educare alla vittoria come alla sconfitta è un’arte destinata a ricondurre l’uomo alla sua finitezza e, insieme, alla sua vocazione a trascendersi senza sosta. Umano è vincere, umano è perdere, ma la sfida sta nel saper vivere con nobilità e dignità di intenzione e di comportamento l’uno e l’altro momento della vita: in realtà, sono entrambi relativi e sono degni di memoria solo se riferiti al cammino di crescita e di perfezione della persona.

II. I PROTAGONISTI

L’atleta

40. L’immaginario collettivo e l’identità del soggetto si nutrono di figure di riferimento, oggi non meno di ieri. Tra queste emerge l’immagine del campione sportivo.

Rivolgendosi agli atleti Giovanni Paolo II diceva: «Voi venite osservati da molte persone che si aspettano che siate delle figure straordinarie non soltanto durante le gare di atletica, ma anche quando siete lontani dai campi sportivi. Vi si chiede di essere esempi di virtù umana, al di là delle vostre prestazioni di forza e di resistenza fisica»[47].

Fatto personaggio pubblico di rilievo, il campione è riferimento forte per lo stile di vita e le qualità umane che lo contraddistinguono. I doni e le capacità di cui è dotato diventano così precisa responsabilità etica e sociale. E’ necessario, perciò, che non sia indotto a considerare lo sport una realtà totalizzante, che finirebbe per imprigionarlo in un mondo di fatto artificiale e alla fine alienante. Quando, poi, tra la pratica sportiva e la vita quotidiana si stabilisce una marcata divaricazione, quando all’impegno nell’una non corrisponde la solidità di comportamento nell’altra, quando gli stili e le decisioni si allontanano dai valori umani e cristiani, allora la figura del campione decade nella controtestimonianza.

Sono una grande responsabilità, un dono e un compito quelli dei campioni sportivi: questi, prima ancora della società, hanno una grande responsabilità oggettiva verso il pubblico, soprattutto verso chi è psicologicamente più fragile. La vita disordinata di un “personaggio pubblico”, in rapporto al denaro, alla affettività, agli impegni familiari, alla violenza ecc., può avere un’incidenza profondamente negativa su tanti preadolescenti e giovani. Ma è vero anche il contrario: la testimonianza di un atleta, eccellente in campo e ricco di valori umani e cristiani nel resto della vita privata, può risultare di esempio, di incoraggiamento e di stimolo per tanti, ancora in ricerca della propria identità.

Atleta non è solo il campione. In senso più ampio e non meno vero possiamo considerare qui tutti coloro che coltivano pratiche sportive abituali, ragazzi, giovani, adulti. Le virtù di schiettezza, lealtà, spirito cavalleresco, di cura del buon nome proprio e del concorrente, che trovano luogo e sottolineatura nell’ambito della pratica sportiva, sono chiamate anche in questo caso a tradursi in stile di vita, in fisionomia costante della personalità. Se non trovano coerente applicazione nel vissuto quotidiano, fanno decadere lo sport a mera pratica motoria, impoverendolo notevolmente nel suo valore umano e nella sua capacità di animazione sociale. L’essere atleti, dunque, assurge a modalità di essere e configura uno stile di vita nel quale si intrecciano profondamente le qualità del corpo e le virtù dello spirito in una sintesi armoniosa e dinamica.

La famiglia

41. Luogo primario della responsabilità educativa, la famiglia tende spesso a sottovalutare l’impatto formativo della pratica sportiva, considerandola campo neutrale di espressione fisica e di sano impiego del tempo libero, lontano dai pericoli della strada e delle “cattive compagnie”. C’è del vero in questo, ma anche una certa superficialità e, forse, un’inconscia tentazione a delegare la propria responsabilità educativa.

La scelta delle attività sportive e delle agenzie che le propongono e le guidano deve comportare attenta valutazione e idoneo discernimento. Al primo posto deve stare la volontà esplicita e fattiva di collaborazione con le associazioni, cui i figli vengono affidati per la loro pratica sportiva. Deve essere invece del tutto evitata l’adesione ad associazioni e società sportive che non prevedano, o addirittura escludano, il coinvolgimento e la responsabilizzazione della famiglia.

Va quindi combattuto un certo diffuso assenteismo, mescolato a volte a qualche sottaciuta connivenza: desiderio del figlio campione, più che del figlio uomo maturo. Va sostenuta e incrementata, al contrario, ogni forma in cui la famiglia sia chiamata a svolgere il ruolo attivo che le compete.

E’ compito pastorale non solo orientare in tal senso, ma anche, ove possibile, avanzare creativamente modelli nuovi di pratica sportiva, in cui la dimensione educativa familiare sia messa convenientemente in risalto.

La comunità cristiana

La diocesi

42. Consapevole che l’aspetto più radicale e decisivo dello sport è quello culturale, la Chiesa particolare si sente chiamata per prima a investire in persone, idee, energie, iniziative nell’ambito della pastorale dello sport. Nel nostro tempo, segnato dalla mobilità e dalle appartenenze molteplici, l’azione pastorale può essere efficacemente progettata e attuata solo a livello di Chiesa diocesana, perché “solo una Chiesa comunione può essere soggetto credibile dell’evangelizzazione”[48].

Così nel contesto di una pastorale organica e unitaria trova la sua specifica collocazione l’attenzione al mondo dello sport. Il livello diocesano curerà – con intelligenza, cordialità, costanza, spirito di servizio – la reciproca conoscenza e talune forme di coordinamento tra le diverse istanze, istituzioni, organismi, associazioni impegnate nello sport. Soprattutto stimolerà una programmazione pastorale che valorizzi le forme educative, culturali e religiose, così che lo sport diventi realmente risorsa di umanizzazione e cammino di preparazione al Vangelo.

Qualche opportuna iniziativa a carattere diocesano può risultare utile ed efficace per tenere vivo nel territorio il vero significato dello sport: così la “Pasqua dello sportivo”; un pellegrinaggio; corsi di qualificazione per animatori di oratori e di società sportive di ispirazione cristiana, aperti a tutti; forme di ricerca e di stretta collaborazione con i responsabili della pastorale giovanile; proposte di esperienze comuni con gli sportivi e con i tecnici di società “laiche” a favore di un agonismo sereno; la valorizzazione di manifestazioni sportive con disabili, ospiti di comunità di recupero o di case circondariali; incontri con atleti-testimoni; il coinvolgimento del mondo sportivo in gesti di solidarietà; la preparazione di sussidi di formazione e di preghiera per i ragazzi e i giovani impegnati nello sport; percorsi educativi per i genitori dei ragazzi che praticano sport; il gemellaggio con gruppi sportivi di Paesi del Terzo Mondo; la scelta accurata degli assistenti spirituali di società sportive.

Anche i futuri sacerdoti, i catechisti e gli operatori pastorali, vanno sensibilizzati adeguatamente alle problematiche del mondo sportivo. Una prima occasione privilegiata a riguardo potrebbe essere l’approfondimento di questa stessa Nota Pastorale.

La parrocchia

43. Come “Chiesa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”[49], la parrocchia condivide le condizioni, di potenzialità positive e di condizionamenti, della situazione sociale e culturale. Partecipe del contesto umano in cui opera la comunità parrocchiale è chiamata a vivere la propria missione di annuncio e testimonianza del “Vangelo della carità” nella fedeltà a Dio e all’uomo, per essere segno e strumento di salvezza per gli uomini che incontra sul suo cammino. Per questo il Papa, con espressione suggestiva, ha invitato la parrocchia a «cercare se stessa fuori di se stessa»[50].

In questo quadro trova significato e rilievo l’impegno a far prendere chiara coscienza che la pastorale dello sport costituisce un momento necessario e una parte integrante della pastorale ordinaria della comunità. Appare immediatamente, allora, come la finalità prima e specifica della Chiesa non possa essere la creazione o la messa a disposizione di strutture per le attività sportive; piuttosto, l’impegno a dare senso, valore e prospettiva alla pratica dello sport come fatto umano, personale e sociale, sia essa attivata all’ombra del campanile o venga promossa da altre organizzazioni sul territorio.

Le indicazioni del Concilio relative alla presenza della Chiesa nel mondo hanno pieno valore anche per l’ambiente sportivo. In particolare, l’esigenza di un progetto culturale, che incida fortemente sul vissuto delle persone e della società e in esse faccia vivere la parola liberante ed esigente del Vangelo, non è concretamente attuabile se non trova forma e dinamismo in un più energico rinnovamento di mentalità e di prassi pastorale delle singole comunità parrocchiali.

Così dicendo, non si intende ritenere superato quell’ampio ventaglio di iniziative di carattere sportivo, che da decenni ormai segna positivamente la vitalità di molte parrocchie. Se ne rimarca, semmai, il valore educativo e promozionale, da rilanciare con maggior convinzione. Anzi, va sottolineato il notevole contributo che gli ambienti e le strutture parrocchiali hanno dato e continuano a dare per l’elaborazione di una sana cultura sportiva, anche con l’educazione al linguaggio sportivo, tentato di esprimersi in modo licenzioso e talvolta blasfemo.

44. Le strutture sportive della parrocchia devono sempre essere tenute saldamente entro l’ambito del progetto educativo cristiano, senza mai diventare delle realtà assolute, totalmente autonome e avulse dall’azione pastorale della comunità. La parrocchia deve poter offrire ai ragazzi e ai giovani i momenti – e quindi le ambientazioni – della catechesi, della preghiera, della vita liturgica, delle riunioni gioiose, del gioco e delle attività espressive. Gli organismi direttivi delle associazioni sportive di area cattolica devono tenere effettivamente presente l’ispirazione cristiana e ricercare i modi concreti di darvi attuazione, senza accontentarsi di prendere come riferimento della loro attività un puro umanesimo o un generico moralismo.

E’ compito irrinunciabile della parrocchia assicurare al “Giorno del Signore” la sua verità di memoriale, in particolare mediante la celebrazione eucaristica, del mistero pasquale di Cristo morto e risorto. Per questo la Domenica è «il giorno di festa primordiale che deve essere proposto e inculcato alla pietà dei fedeli, in modo che divenga anche giorno di gioia e di astensione dal lavoro»[51].

In questa linea, riproposta dai Vescovi italiani nella Nota pastorale “Il Giorno del Signore”[52], occorre seriamente ripensare l’opportunità di una stabile attività sportiva, di carattere professionistico, in Domenica. Nell’intento positivo di favorire una più generale ristrutturazione del tempo feriale e festivo ordinata al bene dell’uomo – e in particolare della famiglia – è da prendere in considerazione il suggerimento di liberare la Domenica da uno sport dominante che, alla fine, non giova alla piena armonia del vivere umano e civile.

Un altro problema, che non poche volte angustia – senza prospettive di facile soluzione – parroci, sacerdoti e operatori pastorali, riguarda il corretto rapporto da stabilirsi tra il tempo da dedicare alla catechesi e il tempo dell’attività sportiva. C’è chi, utilizzando una maggiore fantasia pastorale e ricorrendo a metodologie capaci di inculturare la fede nel complesso fenomeno sportivo, pensa necessario percorrere la via di un’esplicita evangelizzazione dello sport, con la proposta di specifici itinerari catechistici inseriti negli stessi tempi dell’attività sportiva. In realtà, sembra che una più concreta saggezza pastorale porti ad affermare che i luoghi della catechesi debbano essere quelli propri dell’ambito parrocchiale e siano da offrirsi ai ragazzi e ai giovani mediante le normali e comuni iniziative settimanali. Tuttavia ciò non impedisce che si ricerchino anche tempi e luoghi adatti per ulteriori approfondimenti di contenuti di verità maggiormente appropriati alle tipologie educative dello sport.

45. La comunità parrocchiale come “famiglia di famiglie” e comunione di “chiese domestiche” condivide con i genitori la missione educativa. In tal senso la parrocchia deve riservare una particolare attenzione ai compiti delicati e gravosi della famiglia, facendosi carico, nelle sue diverse espressioni di responsabilità e di impegno pastorale, di aiutare i genitori nell’esercizio quotidiano del loro insostituibile ministero educativo nell’accompagnare i figli verso un’autentica maturità, fortificata anche dalle “virtù sportive” (cf 1 Corinti 9,24-26; Filippesi 3,12-14).

Un altro aspetto caratterizza la presenza e l’azione della parrocchia: è l’attenzione agli “ultimi”, cioè quelli che meno hanno, non soltanto a livello economico, ma anche a livello di abilità e di perfezione fisica, come sono i disabili, i poveri, gli extra-comunitari. Si tratta di favorire una partecipazione non puramente tollerata, episodica e di contorno, ma come espressione di spirito civile e di quella nuova fraternità che è propria della comunione ecclesiale. La situazione del disabile e del povero dovrebbe inquietare la tranquilla situazione di chi possiede salute e benessere: fa presenti in maniera simbolica e concreta gli interrogativi e i timori che assillano il cuore dell’uomo. Dare spazio al fratello in condizione di disagio esige la forza della conversione ed è segno di autenticità della fede.

Infine, è da segnalare un altro aspetto della presenza della parrocchia nella sua dimensione comunitaria: la comunità non assorbe mai i singoli soggetti che la compongono in un collettivo anonimo; li riconosce, piuttosto, nella originalità propria di ciascuno e li valorizza nel campo delle sue molteplici relazioni. Anche in questo senso, dunque, la pastorale dello sport costituisce un vero e prezioso servizio al valore singolare della persona e al senso autentico della socialità e della solidarietà.

Le istituzioni pubbliche

46. Un ruolo rilevante nella promozione dell’attività sportiva di base appartiene certamente alle istituzioni pubbliche. Nell’ordinare al bene comune dei cittadini le risorse umane, economiche e finanziarie del territorio, devono vigilare sul corretto funzionamento dei servizi sociali e predisporre interventi adeguati per lo sviluppo integrale delle persone, in particolare di quelle più deboli e meno abbienti.

I continui e profondi cambiamenti socio-culturali, l’imporsi di nuovi stili di vita e l’evoluzione degli ordinamenti amministrativi non possono non sollecitare le istituzioni pubbliche a considerare positivamente le politiche sociali destinate a superare deficienze e a rispondere ai bisogni diffusi. In questo quadro rientrano anche le iniziative di carattere sportivo, ordinate ad elevare la qualità della vita e a prevenire il degrado umano e sociale dei ragazzi e dei giovani.

In tal modo anche nello sport le istituzioni pubbliche trovano un ambito di intervento pienamente coerente alle loro finalità e, nello stesso tempo, rispondono alle attese e richieste di un vivere sociale più sereno. Dovranno, coerentemente, assolvere funzioni di stimolo e di indirizzo non solo per la progettazione e la realizzazione di impianti sportivi popolari, indispensabili soprattutto nelle aree urbane e suburbane più disagiate e a rischio, ma anche per l’attuazione di oculati programmi di politica culturale ed educativa collegati al mondo dello sport e in sintonia con le realtà associative del territorio.

Di fatto, una presenza delle istituzioni pubbliche nello sport, che sia sollecita, intelligente e sempre rispettosa del principio di sussidiarietà, lungi dall’indebolire o negare la libera iniziativa dei singoli o delle società sportive, potrà favorire una partecipazione sempre più ampia al bene sportivo e far maturare una consapevolezza più democratica e civile della gestione, della conservazione e della promozione del patrimonio sportivo del nostro Paese.

La scuola

47. Oggi la scuola vive spesso una situazione paradossale: mentre si vede gravata, da un lato, di sempre più numerosi compiti e di sempre più diffuse istanze educative (l’educazione stradale, igienico-sanitaria, sessuale…), si trova sguarnita, dall’altro, di orizzonti culturalmente significativi, in nome di una presunta e malintesa neutralità. La frattura tra valori e costume sociale, perciò, è già presente nella scuola: c’è molta incertezza nell’identificare i riferimenti da indicare e i modelli da trasmettere, per cui la scuola si ripiega su una pretesa e nefasta neutralità dei valori, soprattutto etici. Si confonde, non poche volte, l’educazione alla e nella libertà con l’educazione priva di riferimenti di valore chiari e precisi. Questi riferimenti peraltro la scuola non li impone affatto: li propone con la solidità razionale delle motivazioni e con la forza attraente della testimonianza di una vita coerente.

Anche la pratica sportiva risente di questa abdicazione educativa propria della scuola: per questo la sua capacità formativa viene sensibilmente diminuita e snervata, tanto da aprirsi a forme di “liberazione” fuorviante.

La scuola, come anche la famiglia, risente della difficoltà che gli adulti del nostro tempo trovano nel definire e vivere il proprio ruolo educativo. D’altra parte l’opera formativa non può accettare il livellamento di ruoli tra soggetti diversi, in nome di un presunto rapporto paritetico. L’adulto pertanto è chiamato a porsi, senza finzioni e complessi di inferiorità, nonché senza prevaricazioni e autoritarismi, come figura orientatrice, autorevole, rispettata.

In questo senso, l’attività sportiva, per la sua stessa strutturazione e distribuzione di compiti, può fornire un apporto non secondario alla corretta formazione della mentalità dei giovani. La scuola non è chiamata a sostituire le realtà che già operano efficacemente nel mondo dello sport educativo, ma a porsi in un rapporto di collaborazione, che favorisca la crescita armonica del giovane e dia spessore culturale e orizzonte umano integrale alla pratica sportiva.

In tal senso la scuola attraverso forme associative proprie, che sappiano dialogare sui grandi temi educativi e tradurli coerentemente in una prassi sportiva adeguata, può dischiudere ai giovani spazi e tempi di aggregazione anche per un sano confronto agonistico.

Le associazioni sportive

48. Le associazioni sportive costituiscono in Italia una realtà di rilievo primario per lo sport praticato, sul piano non solo organizzativo, ma più propriamente strutturale. I fattori che nel nostro tempo hanno favorito la diffusione della pratica sportiva hanno segnato un parallelo incremento numerico delle associazioni, più che triplicatesi nell’ultimo trentennio.

Le associazioni sportive sono caratterizzate dal volontariato di quanti, animati da vera passione e desiderosi di collaborare per costruire un autentico “sociale sportivo”, vi dedicano tempo ed energie.

E’ necessario tuttavia ribadire, a questo proposito, che la diffusione della pratica sportiva non porta con sé automaticamente uno sviluppo della cultura sportiva e dei valori che la autenticano. Le associazioni, perciò, dovranno porre sempre al centro la persona umana, considerata nella sua dignità e nelle concrete esigenze del suo sviluppo integrale e armonico.

In particolare, le associazioni di area ecclesiale metteranno ogni cura nell’evitare la separazione che a volte si crea tra l’ispirazione cristiana dell’associazione e l’autonomia della dimensione sportiva. Come è noto, la pedagogia cristiana mira ad unificare tali aspetti, pur tra loro concettualmente distinti: la potenzialità educativa non si sovrappone allo sport, ma lo interpreta e lo conduce a pienezza. Così, le associazioni sportive di ispirazione cristiana sono chiamate a svolgere un’azione qualificata e preziosa di prima evangelizzazione[53], in quell’ambito antico e attualissimo che è la “preparazione evangelica”: senza strumentalizzazione alcuna, ma dall’interno dei significati e dei valori che la pratica sportiva, posta nella luce della fede, sa evidenziare e favorire.

La competenza educativa e formativa delle associazioni sportive ne mette in luce il significato di servizio sociale, un servizio che merita attenzione e riconoscimento da parte della comunità civile. Da queste associazioni anche la comunità ecclesiale può ricevere frutti positivi: in realtà, attraverso “la molteplicità di associazioni, movimenti e gruppi”, la Chiesa porta la freschezza e la novità del Vangelo “negli ambienti di lavoro, di studio e di partecipazione sociale”[54].

Mentre ravvivano e incrementano le istanze educative, culturali e sociali dello sport attraverso le loro proprie attività programmate, le associazioni sono chiamate a porsi a servizio della comunità cristiana in cordiale comunione di intenti pastorali e organizzativi, evitando sterili contrapposizioni rispetto a presunte autonomie dello sport e collaborando con sapienza ed equilibrio a risolvere i problemi legati ai tempi e alla dislocazione dell’attività sportiva dei ragazzi e dei giovani.

Altri organismi sportivi

49. Anche gli “Enti di promozione sportiva” si fanno particolarmente sensibili a queste istanze antropologiche e sociali: offrono sostegno di indirizzo, promuovono iniziative di aggiornamento e di qualificazione degli operatori, vigilano perché gli obiettivi fondamentali non siano assorbiti dalla pressione economica e di immagine. La loro insostibuibile azione a favore dello sport di base e per tutti (ragazzi, adolescenti, giovani, adulti, anziani e disabili) costituisce una vera ricchezza per l’intero movimento sportivo italiano e un investimento promettente per i ragazzi dotati di talento al fine di ulteriori progressioni che saranno opportunamente convalidate attraverso il particolare e autorevole accompagnamento delle competenti Federazioni sportive.

Al riguardo un ruolo di grande rilievo spetta al CONI, impegnato, oltre che sul versante delle alte competizioni olimpiche, anche a rendere la pratica dello sport più accessibile a tutti, senza alcuna distinzione, e in particolare ai giovani. Giovanni Paolo II, ricevendo in udienza il 17 gennaio 1985 i dirigenti del CONI, ebbe a sottolineare che proprio lo sport fatto dai giovani «costituisce un fattore non trascurabile di pace nell’edificazione della nuova società», aggiungendo subito la precisazione che «l’impresa diverrà più agevole ed efficace se crescerà adeguatamente il numero dei protagonisti giovanili in grado di vivere valori più alti e di saper immettere nella loro attività sportiva un impegno sinceramente spirituale»[55]. In tale prospettiva il CONI, sempre sensibile e attento alla complessità dei valori in gioco per il bene del Paese, vorrà apprezzare il suggerimento del Papa, consolidando in tal modo «i valori positivi dello sport, inteso nei suoi più autentici contenuti, senza le degenerazioni pur così facili di considerarlo fine a se stesso o di strumentalizzarlo a scopi di parte»[56].

I formatori

50. Poiché lo sport non è formativo per sé, ma soltanto in un quadro di riferimento di valori e attraverso una specifica opera educativa, sono di fondamentale importanza la preparazione e l’impegno degli operatori o responsabili sportivi: dirigenti, allenatori, accompagnatori, tecnici specialisti nelle diverse discipline sportive. E’ opportuno che tale compito formativo sia assunto primariamente dagli stessi responsabili dell’attività sportiva, e non delegato a momenti in qualche modo giustapposti, che ne attenuano la forza di incidenza sull’animo giovanile. Anche la presenza dell’educatore qualificato e dello stesso sacerdote viene fortemente compromessa dalla impressione di marginalità ed occasionalità, non corrisposta dalla qualità della atmosfera abituale della pratica sportiva.

Al riguardo si vuole qui riconoscere ed incoraggiare la presenza di sacerdoti assistenti spirituali che, nelle varie discipline sportive e nelle diverse società, con vera passione apostolica si impegnano non solo nell’annuncio del Vangelo e nella formazione ai suoi valori, ma anche in una testimonianza di sincera amicizia, di vicinanza cordiale, di fraterno sostegno ai giovani e ai dirigenti, nel rispetto delle competenze e con discrezione. In tal modo si smorzano eventuali tensioni e si imprimono un’anima e un calore più umano nei rapporti interpersonali all’interno delle società sportive. Come afferma Pio XII, «il tecnicismo freddo, non solo impedisce il conseguimento dei beni spirituali che lo sport si propone, ma, quando anche conduce alla vittoria, non soddisfa né chi lo esercita, né chi vi assiste per goderne»[57].

Attraverso questa vicinanza profondamente umana e fraterna con quanti praticano lo sport, il sacerdote non attenuerà ma valorizzerà la sua missione specifica e originale di educatore alla fede e di animatore e guida della vita spirituale. In tal modo egli potrà incoraggiare e sostenere gli sportivi ad essere i primi apostoli tra i loro compagni e amici. Diventerà allora realtà viva e confortante l’appello di Paolo VI: «Siate, anche in questo settore tanto delicato e promettente, il lievito che fa fermentare la massa (cf. Matteo 13,33), siate il buon profumo di Cristo (cf. 2 Corinti 2,15): la vostra presenza, oltre che contribuire al perfezionamento degli aspetti tecnici della vita sportiva italiana, deve essere un segno, un richiamo, una luce; deve elevare e raggentilire; deve stabilire fraterni contatti di amicizia cristiana fra gli atleti; deve facilitare l’incontro sacramentale con Cristo Salvatore; deve coraggiosamente sostenere i valori umani e cristiani in tutti i settori dell’esercizio sportivo»[58].

51. Il responsabile della pratica sportiva deve così svolgere un servizio di alta qualità pedagogica e sociale. E’ figura pubblica per la responsabilità di cui è investito e per l’indubbia incidenza, soprattutto sugli adolescenti e sui giovani. E’ testimone di integrazione tra fede e vita, non mette tra parentesi la fede nei luoghi della vita, fa sintesi di realismo e speranza. E’ un vero e proprio educatore. Egli non mira solo, né primariamente, al risultato sportivo, quanto a sviluppare tutte le doti dei ragazzi, in vista della loro integrale maturazione umana e cristiana.

Ciò richiede autentico spirito di servizio, soprattutto quando si tratta di impegno non sollecitato da riscontro economico significativo. Ciò aumenta, però, l’incidenza della testimonianza e l’efficacia della proposta. E il peso si traduce in un incremento di gratificazione, perchè “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20,35).

L’educatore non è un manager; adotta perciò un metodo basato sulla presenza e sul rapporto personale, tiene conto delle domande di fondo dei giovani e delle loro esigenze, sebbene a volte inespresse e a volte disarticolate, come il bisogno di partecipazione non subalterna, di creatività, di concretezza, di trasparenza che genera fiducia, di unità profonda, di cura personalizzata. L’educazione è un rapporto di libertà: non di imposizione, ma neppure di debolezza; è un laboratorio di proposte di valore e suscita prese di posizione, senso critico e adesione motivata. L’impegno formativo reagisce alle linee di massificazione culturale imposta di fatto dai mass media, forgiando il senso critico e irrobustendo la capacità di smascheramento dei meccanismi di manipolazione.

E’ necessario e urgente, perciò, superare la tentazione delle scorciatoie facili, per delineare itinerari formativi consistenti, sia a livello accademico (Università) che a livello intermedio (diplomi e corsi di specializzazione). La preparazione terrà conto in maniera equilibrata delle diverse esigenze, sotto il profilo umano, metodologico, etico e tecnico; soprattutto terrà conto della consistenza motivazionale, della qualità umana, della visione della vita degli operatori.

Anche le prospettive più elevate e i messaggi più nobili restano infatti lettera morta, se non trovano persone che, con adeguata preparazione, nutrita di esperienza e di sapienza, e soprattutto con vero amore, intensa dedizione e autentico spirito di servizio, sappiano tradurli in pratica quotidiana di vita.

CONCLUSIONE

52. Prima di consegnare questa Nota pastorale alle comunità ecclesiali, alle associazioni di ispirazione cristiana impegnate nelle attività sportive, e, con simpatia, all’intero grande mondo dello sport in Italia, vorremmo esprimere la nostra ammirazione per tutta la molteplice e benefica attività sportiva che si pone al servizio di milioni di ragazzi, giovani e adulti. E’ questa un patrimonio umano e civile di grande pregio, che fa onore al nostro Paese e ne testimonia il grado di capacità organizzativa, di partecipazione nazionale e di unità.

Oggi lo sport non riguarda soltanto la sfera delle scelte individuali e privatistiche, ma costituisce un fenomeno di grande rilevanza sociale e culturale, tale da interessare intere masse popolari. E’ necessario allora non solo prendere atto del moderno fenomeno dello sport, ma saperne anche cogliere tutte le potenzialità positive e nello stesso tempo avvertirne i rischi. Esige di essere accuratamente osservato, analizzato ed interpretato nell’orizzonte della cultura, con lo sguardo proprio della fede e con la competenza delle scienze sociali e umane. Esige poi di essere coraggiosamente affrontato, così che lo sport possa perseguire sempre più le sue autentiche finalità di aiuto e stimolo alla crescita integrale delle persone e alla promozione della società.

Proprio questo approccio al fatto sportivo permette di valutarne la capacità di modellare stili di vita e di rispondere a nuovi bisogni diffusi, di misurarne l’incidenza sui comportamenti personali e collettivi, di coglierne i profili di valore e di disvalore. Sarà così più facile non trovarsi sprovveduti di fronte ad eventi che, a prima vista, potrebbero suscitare meraviglia, sconcerto, senso di impotenza, come sono, ad esempio, il doping, la violenza, il professionismo, la commercializzazione, la spettacolarizzazione.

53. Invitiamo le comunità cristiane ad aprirsi al mondo dello sport, ad essere informate della vastità e complessità del fenomeno sportivo attuale, a collaborare attivamente perché si sviluppi un nuovo umanesimo sportivo.

Grazie all’accoglienza della Parola di Dio, i cristiani ricevono una nuova visione dell’uomo, della sua dignità, dei suoi valori e compiti, delle sue relazioni. E’ una visione che diventa fonte di giudizi, scelte, comportamenti, in una parola di una cultura nuova (cf. Efesini 5,8ss): e questa tocca ogni ambito e manifestazione di vita. Anche lo sport ne è pienamente coinvolto.

In questo senso, la Chiesa è chiamata ad assumersi con determinazione la sua responsabilità pastorale nei riguardi del mondo dello sport. Attraverso la presenza dei cristiani, la Chiesa annuncia e testimonia la nuova forza umanizzante del Vangelo nei riguardi dello sport: cordialmente rispettato nella sua legittima autonomia, esso viene veramente esaltato solo se mantiene il suo vivo ed essenziale rapporto con l’uomo, nella totalità e unità dei suoi valori e delle sue esigenze.

Esprimiamo ancora una volta la nostra convinzione: il fenomeno dello sport, tipico della modernità, se inteso e vissuto secondo la visione cristiana, potrà essere un servizio prezioso nel promuovere il perfezionamento dell’uomo nella sua vocazione integrale e nel suo destino trascendente e, nello stesso tempo, nel favorire la costruzione di una società umana più serena e solidale.

Il nostro augurio e la nostra preghiera è che tutti gli amanti dello sport possano trovare nel monito dell’apostolo Paolo una guida per vivere in piena dignità umana e cristiana il loro impegno sportivo: «Siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore» (Efesini 5,8-10); «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1 Corinti 6,20).

NOTE

[1] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, 13.
[2] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per l’inaugurazione dello Stadio Olimpico, 31.5.1990: “Non è solo il campione nello stadio, ma l’uomo nella completezza della sua persona che deve diventare un modello per milioni di giovani, i quali hanno hanno bisogno di ‘leader’ e non di ‘idoli’ “.
[3] Cf. PIO XII, Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955: “Con l’avvento del nostro secolo lo sport ha assunto proporzioni tali, per le schiere dei dilettanti e dei professionisti, per le folle accorrenti negli stadi e per l’interesse destato mediante la stampa, da costituire un fenomeno tipico della odierna società”.
[4] PIO XII, Ibid.: “Si sappia in primo luogo distinguere tra la semplice ginnastica e l’atletismo, e tra questo e l’agonismo. La ginnastica procura il normale sviluppo e la conservazione delle forze fisiche; l’atletismo mira al superamento del normale, ma senza il confronto con altri soggetti, e senza sconfinare nell’acrobatismo, che è piuttosto un freddo mestiere; l’agonismo invece tende, per mezzo della leva dell’emulazione, a raggiungere gli estremi limiti che possono toccare le energie fisiche sapientemente impiegate. Nelle molteplici attuazioni dello sport, è anche bene discernere gli esercizi, in cui prevale la forza, da quelli in cui primeggia l’agilità dei muscoli o la destrezza nell’uso degli strumenti e delle macchine”.
[5] Ibid.: “Ora, il moderno indirizzo tecnico-scientifico esige giustamente che innanzi tutto si proceda con oculatezza nell’ammettere i soggetti ai tre tipi di sport, in modo che non soffrano danno per avventate scelte o per la sproporzione della loro costituzione fisica, o per immaturo passaggio dall’uno all’altro esercizio”.
[6] CONCILIO VATICANO II, Gravissimum educationis, 4. Cf. anche Gaudium et spes, 61.
[7] PIO XII, Discorso agli Sportivi romani per la “Pasqua dello Sportivo”, 20.5.1945; cf. anche Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955; e inoltre cf. PAOLO VI, Discorso alla Associazione sportiva ‘Roma’, 30.1.1974.
[8] Cf. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 23.
[9] PIO XII, Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955.
[10] PAOLO VI, Discorso per il Giubileo degli Sportivi, 8.11.1975.
[11] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per una manifestazione di Sci Nautico, 14.9.1991.
[12] GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Federazione Italiana Tennis e agli atleti dei XLIII Campionati Internazionali d’Italia, 15.5.1986.
[13] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, 37: “Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all’areopago, dove annuncia il Vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell’ambiente (cf. At 17,22-31). L’areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il Vangelo”.
[14] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 46.
[15] PAOLO VI, Discorso per la LXIV Sessione del Comitato Olimpico Internazionale, 22.4.1966; cf. anche GIOVANNI PAOLO II, Discorso per una manifestazione di Sci Nautico, 14.9.1991: “La Chiesa stima e rispetta gli sport che sono veramente degni della persona umana. Essi sono tali quando favoriscono lo sviluppo ordinato e armonico del corpo al servizio dello spirito, quando costituiscono una competizione intelligente e formativa che stimoli l’interesse e l’entusiamo, e quando sono una sorgente di piacevole distensione”.
[16] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi, 12.4.1984; cf. PIO XII, Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955: “Ma quali sono le norme di una educazione sportiva e cristiana? Nessuno si attende un duplice elenco nettamente separato: di quelle che riguardano il cristiano, e delle altre che concernono lo sportivo, poiché le une con le altre si compenetrano integrandosi”.
[17] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per la Libera Associazione Medici Italiani del Calcio, 26.11.1984.
[18] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 61.
[19] SANT’AMBROGIO, Esamerone, VI, 75-76.
[20] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per la Libera Associazione Medici Italiani del Calcio, 26.11.1984: “Occorre evitare condizionamenti disumanizzanti. Il traguardo sportivo non è fine a se stesso. Lo sport è finalizzato all’uomo, non l’uomo allo sport. Il calciatore, anche se professionista, non e`un robot: egli va aiutato a valutare meglio l’oggettiva e completa scala di valori umani e sovrumani”.
[21] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, 14.
[22] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 1; cf. GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, 14.
[23] PIO XII, Discorso per il Congresso Scientifico Nazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, 8.11.1952:”Lo sport, come la cura del corpo nel suo insieme, non può essere un fine a sé, degenerando in culto della materia. Esso è al servizio di tutto l’uomo; dunque, lungi dall’intralciare il perfezionamento intellettuale e morale, deve promuoverlo, aiutarlo e favorirlo”.
[24] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi, 12.4.1984: “…una ‘filosofia dello sport’, il cui principio-chiave non è ‘lo sport per lo sport’ o per altre motivazioni che non siano la dignità, la libertà, lo sviluppo integrale dell’uomo”.
[25] GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, 71-75; in particolare 72: “L’ordinazione razionale dell’atto umano al bene nella sua verità e il perseguimento volontario di questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità. Pertanto, l’agire umano non può essere valutato moralmente buono solo perché funzionale a raggiungere questo o quello scopo, che persegue, o semplicemente perché l’intenzione del soggetto è buona [cf. S.TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q.148, a.3]. L’agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l’ordinazione volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell’azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione”.
[26] PIO XII, Discorso per il Congresso Scientifico Nazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, 8.11.1952.
[27] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi, 12.4.1984.
[28] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi, 12.4.1984.
[29] PAOLO VI, Discorso per la LXIV Sessione del Comitato Olimpico Internazionale, 22.4.1966.
[30] PIO XII, Discorso per il Congresso Scientifico Nazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, 8.11.1952; cf. anche PAOLO VI, Discorso per il Giubileo degli Sportivi, 8.11.1975: “L’agonismo sportivo, pur così nobile e bello, non deve essere considerato come fine a se stesso, ma soltanto come un mezzo e un aiuto”.
[31] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, 14.
[32] “Dai divini comandamenti – diceva PIO XII – viene protetta la vita propria ed altrui, la sanità propria ed altrui, le quali non è lecito esporre sconsideratamente a serio pericolo con la ginnastica e lo sport” (PIO XII, Discorso per il Congresso Scientifico Nazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, 8.11.1952).
[33] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Convegno Nazionale della CEI, 25.11.1989.
[34] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi, 12.4.1984.
[35] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Convegno Nazionale della CEI, 25.11.1989: “Perché lo sport non viva per se stesso, correndo così il rischio di erigersi a idolo vano e dannoso, bisogna evitare quelle espressioni ingannevoli e fuorvianti per le masse sportive”.
[36] PAOLO VI, Discorso ai Corridori del XLVII Giro d’Italia, 30.5.1964.
[37] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Convegno Nazionale della CEI, 25.11.1989.
[38] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Consiglio della Federazione Internazionale dello Sci, 6.12.1982.
[39] Già S. GIOVANNI CRISOSTOMO rilevava con fine arguzia: “Se chiedi ai cristiani chi sono Amos o Abdia, quanti sono gli apostoli o i profeti, essi non sanno rispondere. Ma se chiedi di cavalli o di cocchieri, rispondono con maggior eloquenza dei retori” (Omelie, 58).
[40] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, 25: “Inoltre, l’uomo creato per la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di redenzione. Questa dottrina non solo è parte integrante della rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana”.
[41] GIOVANNI XXIII, Discorso per il VI Congresso Nazionale del Centro Sportivo Italiano e per il XIII Congresso Nazionale Cronometristi, 26.4.1959.
[42] PAOLO VI, Messaggio per le Olimpiadi di Montreal, 16 luglio 1976. Cf. sul tema delle virtù cardinali GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Consiglio della Federazione Internazionale dello Sci, 6.12.1982.
[43] PIO XII, Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955.
[44] PAOLO VI, Discorso ai Corridori del XLVII Giro d’Italia, 30.5.1964.
[45] Dall’Omelia di un autore del secondo secolo, cap. 7,1-6.
[46] GIOVANNI XXIII, Discorso per il VI Congresso Nazionale del Centro Sportivo Italiano e per il XIII Congresso Nazionale Cronometristi, 26.4.1959.
[47] GIOVANNI PAOLO II, Discorso per il Campionato Mondiale di Atletica, 2.9.1987.
[48] CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, 27; cf. ibid., 29: “La pastorale diocesana deve essere organica e unitaria ‘sotto la guida del vescovo: di modo che tutte le iniziative e attività… debbono tendere a un’azione concorde dalla quale sia resa ancor più palese l’unità della diocesi’ [Christus Dominus, 17]. Ciò è reso possibile se tutto il popolo di Dio e in esso i vari soggetti ecclesiali si impegnano a crescere in uno spirito di comunione e a operare secondo comuni orientamenti, a servizio della Chiesa e della missione”.
[49] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, 26.
[50] GIOVANNI PAOLO II, Incontro quaresimale con i parroci di Roma (cf. L’Oss. Rom., Supplemento, 21 febbraio 1983).
[51] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum concilium, 106.
[52] CEI., Nota pastorale Il giorno del Signore, 15 luglio 1984.
[53] Cf. CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, 31.
[54] Ibid., 29.
[55] GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Dirigenti del CONI, 17.1.1985.
[56] Ibid.
[57] PIO XII, Discorso per il X Anniversario del Centro Sportivo Italiano, 9.10.1955.
[58] PAOLO VI, Discorso per l’VIII Congresso Nazionale del Centro Sportivo Italiano, 20.3.1965.

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