È possibile oggi uno sport educativo?
La domanda non è retorica. Neanche polemica. È chiaramente interlocutoria: è una domanda che rivolgo a me stesso per primo, e poi anche a voi, lettori di NPG: quale il senso dell’attività sportiva nei nostri ambienti?
Che ci sia un desiderio, forse più ideale che reale, di un recupero della dimensione etica nell’ambito sportivo è evidente soprattutto in occasione di scandali ed esagerazioni, a cui spesso corrisponde la caccia al “cattivo” di turno e il desiderio di normalità. In questi momenti sembra che tutto debba cambiare, ma alla fine si risolve in “tanto rumore per nulla”.
Nella ricerca di materiale che mi potesse tornare utile per una seria riflessione sul tema ho recuperato un interessante testo, datato 13-15 maggio 1992. Si tratta del Codice Europeo di Etica Sportiva, che nell’introduzione così commenta: «Il principio fondamentale del Codice è che le considerazioni etiche insite nel “gioco leale” (fair play) non sono elementi facoltativi, ma qualcosa
d’essenziale in ogni attività sportiva, in ogni fase della politica e della gestione del settore sportivo. Queste considerazioni sono applicabili a tutti i livelli di abilità e impegno, dallo sport ricreativo a quello agonistico». Per una maggiore comprensione riporto le regole di “gioco leale”?
Carta del Fair Play (fonte: Comitato per il fair play riconosciuto dal CONI nel giugno 2005)
– Fare di ogni incontro sportivo, indipendentemente dalla posta in gioco e dalla virilità della competizione, un momento privilegiato, una specie di festa;
– conformarmi alle regole e allo spirito dello sport praticato;
– rispettare i miei avversari come me stesso;
– accettare le decisioni degli arbitri o dei giudici sportivi, sapendo che, come me, hanno diritto all’errore, ma fanno tutto il possibile per non commetterlo;
– evitare le cattiverie e le aggressioni nei miei atti, e mie parole o miei scritti;
– non usare artifici o inganni per ottenere il successo;
– rimanere degno della vittoria, così come nella sconfitta;
– aiutare chiunque con la mia presenza, la mia esperienza e la mia comprensione;
– portare aiuto a ogni sportivo ferito o la cui vita sia in pericolo;
– essere un vero ambasciatore dello sport, aiutando a far rispettare intorno a me i principi suddetti.
A dare peso e profondità a questi enunciati ha concorso Giovanni Paolo II, uomo di sport e pastore sensibile, in occasione del “Giubileo degli Sportivi” del 29 ottobre 2000, con una lucida riflessione durante l’omelia (scaricabile dal sito www.vatican.va) a cui ha fatto seguito la proclamazione del “Manifesto dello Sport”.
La cronaca sportiva fa sorgere il dubbio che siamo ancora solo di fronte a enunciati, a proclami, a dichiarazioni di intenti. Quanto è stato proclamato e legiferato si presenta più come un traguardo da raggiungere, un risultato da conquistare, che non come dato di fatto.
Di questo dobbiamo sempre più essere consapevoli: le sport (definito così a Lisbona nel maggio 1995 MANIFESTO EUROPEO SUI GIOVANI E LO SPORT: qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, hanno per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli) si presenta come potenzialità neutra, quando non addirittura negativa in sé per il contesto che lo circonda. Non è più possibile oggi dare per scontato che l’attività sportiva sia, di per se stessa, formativa. Bisogna piuttosto presumere che, se non vengono applicati dei correttivi, sia più facile che avvenga una diseducazione, cioè una conferma e un radicamento di non valori e di atteggiamenti negativi. Non basta fare sport nelle strutture della parrocchia per dire che si sta facendo pastorale dello sport!
Eccoci, quindi a riflettere sulle condizioni che rendono possibile l’attività educativa e pastorale nel contesto sportivo.
Ne indico alcune, tentando di metterle in ordine, sapendo che ciascuno, nel proprio ambiente e con le persone interessate, è chiamato a fare le proprie valutazioni e a prendere le doverose decisioni.
Innanzi tutto c’è bisogno di trovarsi e di confrontarsi: allenatori, dirigenti e genitori non devono essere mondi separati e tanto meno contrapposti! La “forza” dell’attività educativa oggi è data dalle alleanze, non dalle divisioni e tanto meno dalle contrapposizioni. E tra tutti sono i genitori che devono essere al più presto recuperati allo sguardo educativo anche in ambito sportivo, e non più solo tifosi e manager illusi e illudenti i loro figli.
Costituito il gruppo della comunità educante, il secondo passo, fondamentale, è decodificare il fenomeno sport, quello che riguarda i nostri ragazzi, ma anche quanto capita a livello di grandi società e di cultura. Parliamone, parliamone insieme!
Il confronto tra educatori e l’approfondimento sulla cultura dello sport non è fine a se stesso, e tanto meno deve essere l’angolo dei luoghi comuni. L’occhio è sempre puntato sul singolo ragazzo/a. Non è l’atleta in funzione della squadra o della società sportiva, e tanto meno dello sport in genere. Tutto è in funzione della sua vita, del suo crescere, del suo maturare.
La dimensione educativa nell’attività sportiva si esprime con estrema concretezza personalizzando i percorsi, gli interventi, le proposte. Questo suppone che sappiamo cosa si aspetta ogni singolo “atleta”, perché certe reazioni, cosa mette in gioco nella competizione, come influisce su di lui l’ambiente… quale carattere, chi sarà da grande, che uomo o che donna desideriamo che diventi…
A ben pensarci per noi educatori lo sport, nelle sue diverse manifestazioni, non si colloca più nell’ambito del tempo libero, nel quale prevale l’esigenza di intrattenimento e di distrazione, ma nel cuore dell’educazione, proprio perché “palestra” di personalità, di valori e di stili di vita.
Mi permetto di concludere questa condivisione rispondendo alla domanda del titolo: oggi lo sport educativo non solo è possibile, ma è un dovere!
don Claudio Belfiore
Tratto da Note di Pastorale Giovanile, febbraio 2009