Il fair play non abita più qui

Tratto da Dimensioni Nuove, febbraio 2010
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Il nostro è un Paese dove, a cominciare dai palazzi della politica, le regole della cavalleria, e il rispetto dell’avversario, sono lettera morta da un bel pezzo. Dove, tante volte, le uniche partite degne di essere viste sono quelle fra i bambini del parco sotto casa. Dove magari il fair play latita, ma il divertimento, quello più vero e innocente, non smette mai di farci sorridere.

Uno dei comportamenti che, a volte, rendono particolarmente buffi i bambini è la loro assoluta mancanza di fair play. Ovvero,di quello stile che alla vittoria a tutti i costi antepone il rispetto delle più elementari regole di cavalleria nel rapportarsi ai propri antagonisti.
Diretti, prepotenti, e affamati di emozioni forti, i bambini mettono invece una colorita enfasi quando si rivolgono ai loro avversari trovatisi in impreviste difficoltà. “Siete due in meno? Peggio per voi, la partita si fa lo stesso”. Oppure: “Non riuscite a venire al parco per le 5? Allora vinciamo noi a tavolino”. O anche: “Mio fratello più grande è in squadra con noi. Non può segnare, ma ce la passa e ci fa fare gol”. Prima o poi qualcuno dei “sicuri sconfitti” butta lì un “Sai che gusto c’è?”, solitamente destinato a lasciare il segno. Anche se magari non subito, sono paroline che girano a fuoco lento nelle teste a cui sono indirizzate. Finché arriva un’età in cui quel bimbo, diventato ragazzo, ha capito benissimo che non c’è proprio nessun gusto a vincere così, e che se l’avversario ha mal di pancia è meglio aspettare la sua guarigione per divertirsi davvero in una sfida ad armi pari.

I bambini mai cresciuti

I problemi nascono quando troppi bambini mai cresciuti vanno a fare di professione i calciatori. Fino a qualche anno fa si dava per scontato che sarebbero stati adulti secondo l’anagrafe, e molto meno dal punto di vista dell’etica sportiva. Tanto che negli anni ’70 e ’80 faceva specie imbattersi in una nazionale azzurra zeppa di gentlemen di nome Giacinto Facchetti, Gigi Riva, Dino Zoff, Giancarlo De Sisti, Riccardo Scirea, Giancarlo Antognoni, mentre attorno a loro sgomitava nei campionati italiani un’accozzaglia di commedianti da area di rigore, azzoppatori di bomber, e “sputatori” destinati a restare impuniti in mancanza di telecamere. Con il passare del tempo, e il moltiplicarsi degli occhi televisivi, la situazione è andata ulteriormente deteriorandosi, fino agli sputi di Totti durante un Europeo, ai tuffi da rigore di Zalayeta, alle scientifiche provocazioni di Materazzi, per non parlare della monetina che nel 1990 finisce con il consegnare uno scudetto al Napoli (chi può dimenticare lo “Stai giù, stai giù” gridato dal massaggiatore Salvatore Carmando al centrocampista Alemao centrato da uno spicciolo sul campo dell’Atalanta, con successiva vittoria a tavolino dei partenopei, e punti decisivi incassati nei confronti del Milan?).

Qualcosa di somigliante a una svolta avviene il 18 dicembre 2000 in Inghilterra, e più precisamente allo stadio Goodison Park di Liverpool, dove si gioca la partita di Premier League fra l’Everton e il West Ham di Londra. Corre il fatidico 90° quando, sul risultato di 1-1, con il portiere dell’Everton Paul Gerrard a terra infortunato, il bomber del West Ham Paolo Di Canio – romano, classe 1968 – invece che segnare a porta sguarnita, e ottenere i tre punti per la propria squadra, blocca il pallone con le mani e lo consegna all’arbitro, così da consentire al numero uno avversario di essere soccorso.
La lunghissima e commovente standing ovation tributata all’attaccante italiano dal pubblico di Liverpool resta il premio più bello che Di Canio riceve grazie al suo nobile gesto. Vale molto di più dello stesso premio Fair Play, con tanto di lettera di encomio, consegnata al giocatore dal presidente della Fifa, Joseph Blatter, e delle infinite repliche televisive dedicate all’edificante azione. 
I dieci anni trascorsi da allora, nel bene e nel male, ce ne hanno fatto vedere di tutti i colori.

Compresi i saluti fascisti che Di Canio, una volta tornato in Italia, rivolge alla curva della sua Lazio dopo i gol segnati a Roma o Livorno. Con la sensazione che il fair play venga più naturale ai giocatori nordici rispetto ai latini, e agli italiani in particolare. Di ciò ognuno può documentarsi spulciando fra i video di internet. Dove spicca ad esempio quanto avvenuto qualche anno fa nella partita di Coppa d’Olanda fra l’Ajax Amsterdam e il Cambuur Leeuwarden. Succede che una restituzione di palla da parte dell’Ajax, dopo un’interruzione per infortunio, si trasformi nell’inopinata rete siglata con spiovente scoccato da quaranta metri per finire oltre le braccia del portiere. Il goleador involontario non fa una piega e si scusa con gli avversari, dopodiché, alla ripresa del gioco, i calciatori dell’Ajax assistono immobili alla rete immediatamente messa a segno, per compensazione, da quelli del Cambuur.

Due casi a confronto

Caso ancora più clamoroso si verifica in una partita di Coppa di Lega inglese, giocatasi nel 2007 fra Leicester e Nottingham Forest. Durante l’intervallo, sull’1-0 per il Forest, il giocatore del Leicester Clive Clarke stramazza a terra, colpito da un infarto. I calciatori del Nottingham si offrono allora di annullare la partita per solidarietà con gli avversari. La ripetizione del match, avvenuta qualche settimana dopo, riparte dal gol che il Leicester fa immediatamente segnare al Forest, in modo che si ricominci da dove la partita precedente si era interrotta. Destino vuole che il Nottingham addirittura raddoppi, ma per farsi clamorosamente rimontare nel finale dal Leicester, uscito vincitore per tre a due da una sfida entrata nella storia del calcio inglese.
Sono episodi e atmosfere ancora distanti da quanto si vede in Italia. Dove, in tema di fair play, farà testo a lungo una partita di serie B, giocata il 5 dicembre scorso fra Ascoli e Reggina.

Dopo nemmeno un quarto d’ora il reggino Valdes, che chiede il cambio per infortunio, non riesce a buttare fuori la palla, di cui si impadronisce proditoriamente il laterale di casa Sommese. Fuga indisturbata sulla fascia, e palla servita al centro al compagno Antenucci, che spara nel sacco l’uno a zero. Se poco fair play dimostrano nell’occasione i giocatori dell’Ascoli, ancora meno ne sfoggiano quelli della Reggina, che si scatenano in una specie di caccia all’uomo in maglia bianconera. Segue un grottesco parapiglia a base di spinte, cazzotti e ingiurie, con partita sospesa sei minuti, e lunghi conciliaboli fra i calciatori dell’Ascoli e il loro allenatore, Bepi Pillon. È quest’ultimo che, per ristabilire un minimo di serenità in campo, convince i suoi atleti a lasciar segnare un immediato pareggio alla Reggina.

Mal gliene incoglie, povero Pillon. Perché la Reggina poi vince 3-1, i suoi tifosi non la mandano proprio giù, e anche la dirigenza marchigiana fa trapelare un certo imbarazzo per la piega presa dagli eventi. Un caso di palese e violenta intimidazione, da parte dei reggini, genera così il più forzato dei fair play, di cui lo stesso Pillon si pente nelle interviste del giorno dopo. C’è da capirlo, l’allenatore dell’Ascoli. Vive e lavora in un Paese dove, a cominciare dai palazzi della politica, le regole della cavalleria, e il rispetto dell’avversario, sono lettera morta da un bel pezzo. E dove, tante volte, le uniche partite degne di essere viste sono quelle fra i bambini del parco sotto casa. Dove magari il fair play latita, ma il divertimento, quello più vero e innocente, non smette mai di farci sorridere.

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